Anita Napolitano

Anita Napolitano è nata a Roma, città in cui vive e lavora. Si è laureata in Scienze umanistiche all’Università La Sapienza di Roma con una tesi di antropologia sociale dal titolo “Il rito, il teatro, lo spettacolo”. Nel 2003 ha frequentato alla Sapienza il laboratorio del Prof. e Psichiatra Ferruccio Di Cori, “Teatro spontaneo delle emozioni”. Nel 2004 ha partecipato, in ambito universitario, al laboratorio di teatro e psichiatria a cura del Prof. Michele Cavallo collaborando alla messa in scena di un classico rivisitato sul tema della follia.

Il laboratorio teatrale si è svolto principalmente dentro una struttura psichiatrica a stretto contatto con la quotidianità dei pazienti, incontrando il loro modo di essere attraverso il training teatrale condiviso. Nel 2007 debutta come attrice al Teatro Accademia Indipendente con lo spettacolo dal titolo “Casa di Bambola” di Herik Ibsen per la regia di Rosanna Malfarà nel ruolo della Sig. Linde.

Sempre nel 2007 frequenta il laboratorio di scrittura creativa a cura del Prof. Annio Stasi e della Prof.ssa Mary Tortolini (i quali propongono una ricerca didattica originale, una metodologia innovativa sul rapporto tra immagini e scrittura utile per riflettere sui processi di formazione del linguaggio) e partecipa come interprete allo spettacolo “Volti nel Tempo” messo in scena presso il Teatro Ateneo della Sapienza. Ha pubblicato due libri di poesia: “Il Trionfo di Galatea” (Edizioni Progetto Cultura) e “Fuorvianti Parvenze” (Ed. Estro-Verso – collana Equi-libri). Ha scritto vari testi teatrali tra i quali ricordiamo: Il monologo “Beatrice Cenci” – la notte prima di essere decapitata, già rappresentato nella prestigiosa cornice di Castel Sant’Angelo dall’attrice Valeria Zazzaretta e “Il sano delirio di Don Chisciotte della Mancia”, opera teatrale rappresentata al teatro Anfitrione di Roma. Ha vinto numerosi premi letterari, da ultimo ricordiamo il primo premio “Giacomo Leopardi”. Organizza dal 2015 al Teatro Marcello eventi poetici nell’ambito della rassegna del Festival Musicale delle Nazioni con Angelo Filippo Iannoni Sebastianini e Carla De Angelis. 

LA TORRE IMPERFETTA

Anita Napilitano

AnnodelSignoremillenovantatre

Fra Bruno, era un orfano dalle belle fattezze che amava scrivere e disegnare. Pur avendo da poco tempo preso i voti, non si limitava a ricopiare le opere degli antichi scrittori ma, con maestria, ne abbelliva le pagine dipingendo ornamenti e figure. Di sovente la frangia fulva che ornava il suo volto, quando disegnava gli cadeva sugli occhi. Il Frate infastidito tentava di spostarla verso l’alto, ma immancabilmente gli ricadeva sugli occhi. Il suo gesto si ripeteva tante volte che, esausto sbuffava ed i frati, seccati, erano costretti a richiamarlo al silenzio. Il suo sguardo accorto e il portamento ritto ricordava quello dei prodi Cavalieri.
La cella di Frate Bruno, come quella di Fra Timoteo, era posta sul retro dell’Abbazia, il sacro convento era stato edificato secoli prima in onore del Santissimo Salvatore. A conferire particolare bellezza erano i torrioni che affiancavano l’abbazia: uno alto e merlato, l’altro imperfetto. Dalle finestre di dietro si poteva ammirare lo scorcio di campagna che conduceva alla suggestiva valle. Non distante da lì, incanalato nelle terre Telesine scorreva il fiume dalle acque fredde e cristalline, dove le donne, con i catini in bilico sul capo, si recavano a lavare gl’indumenti di tutta la famiglia.
Frate Bruno era il più giovane della comunità e spesso passava parte del suo tempo in compagnia del suo cane, Liuto. Era un cane pastore arguto e irrequieto, ma bravo nel badare al gregge. Liuto aveva il pelo lungo e folto e quando si scatenava si accaniva non solo contro le pecore più ostinate a non ubbidire al suo abbaiare, ma lo faceva anche contro i frati più scostanti. Fra Timoteo aveva tentato di colpirlo col manico di una di scopa e lui per tutta risposta, gli aveva azzannato il saio ritagliandogli una bella finestra sul posteriore. Ogni frate, secondo le proprie capacità, aveva una mansione da svolgere nell’abbazia.
Il fraticello oltre a coltivare la terra e bonificare terreni incolti era dedito alla pastorizia, il suo compito era quello di portare al pascolo le pecore, mungerle e tosarle. Ogni martedì nello spazio sottostante al castello si svolgeva il mercato e frate Bruno caricava sulla sua carretta lana e latte cercando così, di vendere la merce al migliore offerente per ricavarne un guadagno superiore alle aspettative degli altri. Il suo progetto era quello di ridare lustro all’ abbazia nella quale, era custodito meticolosamente il Codex Amiatinus. La sua granitica volontà era quella di far restaurare il convento e le opere saccheggiate e distrutte dai barbari. Assillato da questo pensiero, gli capitava di affondare le dita nell’ acquasantiera e di fare la croce alla rinfusa, e anziché pregare come la regola insegnava, disegnava con dei ramoscelli appuntiti di cui bruciava la punta sul fuoco e con la polvere di minio, dal colore rosso vivo, formava il nuovo assetto per ricostruire la Torre imperfetta. Al calare del sole prima di ritirarsi nella sua celletta e coricarsi sulla tavolaccia, vestito con l’abito di coro andava a ricontare le pecore e a salutare Liuto, che, malgrado la mole, alla vista del frate scodinzolava giulivo. Tra Bruno e Liuto si era istaurato un fraterno legame di amicizia, del resto, il fraticello libertino dagli occhi a mandorla e i capelli fulvi era solo al mondo, non aveva mai conosciuto suo padre, e, a malapena ricordava sua madre. Nonostante avesse da poco preso i voti gli capitava di non rispettare le regole dell’ordine. Non riusciva a mandar giù un passo del Vangelo (Luca XV) che recitava così: “Si farà più festa in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti.” Al mercato aveva conosciuto una giovane donna di nome Marta, la più bella delle meretrici, assidua frequentatrice del bordello vicino agli agglomerati di casupole e invece di ripassare il Vangelo e i canti Gregoriani, all’ insaputa degli altri, sognava di stare tra le sue braccia. Quando i frati, al calar del sole rientravano dal duro lavoro manuale, dopo cena, andavano a dormire e cadevano in un profondo sonno, il giovane frate, con fare silenzioso e accorto, accendeva il piccolo lume e sotto il duro letto fatto di tavole di legno tirava fuori i libri proibiti e per non perdere una sola parola, con l’ indice seguiva rigo per rigo la lettura.
Poco distante dall’abbazia, sulla sommità del monte Pugliano, si ergeva dominante il Castello circondato dalle sue mura di cinta. Le mura di cinta abbracciavano una torre quadrata dalla sommità merlata, era suddivisa su quattro piani ai quali si accedeva tramite una scala di legno. Lo spazio della torre era talmente ampio da potere ospitare gran parte degli abitanti di San Salvatore. Inoltre, era stato dotato di un ponte fatto costruire per maggiore sicurezza. Il valoroso Re Baldwin e sua moglie Matilde vi abitavano, il Re passava le sue notti, girandosi da una parte all’ altra del letto, di sovente udiva il mal augurante lamento della civetta. La sua fronte era molto corrugata per le sorti del suo regno e all’ albeggiare dopo che il canto del gallo gli aveva dato il buongiorno, andava a pregare nella cappella adiacente alla camera. Quando lo squillo del corno chiamava i Signori a desinare, egli non era entusiasta poiché il suo viso esprimeva una sorta di malcontento. Gli attacchi continui del nemico lo avevano messo a dura prova e prima di sedersi a tavola per timore di essere avvelenato voleva, che del cibo se ne facessero palesi assaggi. Un’ altro dei motivi che lambiccava la sua mente erano le sorti del Cavaliere Romualdo di Faicchio suo fedele amico che da tempo non dava più notizie di sé, partito per la spedizione successiva a quella capitanata da Goffredo Di Buglione, con Raimondo di Tolosa, Bernardo di Taranto e suo nipote Tancredi.

Intanto nell’ abbazia alle undici di ogni giorno dopo aver recitato per tre ore il mattutino e aver faticato duramente, i frati si riunivano nel refettorio dove consumavano un pasto frugale a base di formaggio patate e frutta. Era consueto che fra Timoteo sacrificava la sua razione per darla a frate Bruno.
Timoteo guardava Bruno in un modo strano e ogni volta che orchestrava qualcosa che non andava per il verso giusto, era sempre pronto a difenderlo. Aveva un debole per lui e non tentava nemmeno di nasconderlo. La sera prima di ritirarsi nella cella passava zitto, zitto a spiarlo mentre si svestiva per lavarsi. Il suo affetto smisurato si stava trasformando in ben altro e l’abate Giovanni se ne era reso conto. Più volte, sapendo le intenzioni del Frate, in separata sede lo aveva richiamato all’ordine minacciando di allontanarlo dal convento. Timoteo per tutta risposta lo aveva ricattato ricordandogli il segreto che da più di diciotto anni li legava con maglie d’ acciaio. Infuriato e sbattendo la mano sulla coscia destra, giurò di rivelarlo agli altri frati.
Tra i due, spesso c’ era malcontento, ogni occasione era buona per litigare. Un giorno, dopo una lite furibonda, fra Timoteo fu allontanato dall’ abbazia. Egli, per farla pagare all’ Abate, senza pensarci, decise di inviare al Vescovo di Canterbury una missiva con l’inquietante rivelazione. Il Vescovo apprese con disappunto l’amara notizia e con solerzia prese la decisione. frate Bruno, diciotto anni prima era stato trovato scalzo e nudo nei pressi del guado del fiume, vicino alla secolare quercia dall’ abate Giovanni dove fra Timoteo lo avevano raccolto e portato di nascosto al convento. La casa del bambino era stata incendiata e a pagarne le conseguenze con la morte era stata la madre, Arabella, che godeva la fama di essere la strega più poderosa del Beneventano.
Ormai Frate Bruno non era più quel ragazzo ingenuo e giocherellone e quando il martedì a San Salvatore facevano il mercato si sbizzarriva e andava nei bordelli a cercare Marta. La sua bianca carne lo aveva stregato al punto che decise di regalargli il ciondolo che portava al collo da quando era nato. Intanto il Vescovo di Canterbury sapendo che nelle vene di Frate Bruno scorreva lo stesso sangue dell’eretica Arabella, decise di inviare le guardie al convento per far arrestare Frate Bruno e giustiziarlo, il frate fu portato nelle segrete.
Il Vescovo temeva, che, essendo figlio della strega fosse stato a sua volta contaminato dal maleficio. Anche il nome faceva presagire il peggio infatti Bruno significava oscurità. In poco tempo venne scomunicato, al boia al quale fu dato l’incarico di farlo decapitare in pubblica piazza.
Nel frattempo, l’abate nella sua cella non riusciva a darsi pace e un giorno inginocchiatosi davanti al crocefisso si rivolse al Signore dicendo: “Signore perdonatemi se ho peccato, genufletto le mie ossa prostrandomi ai vostri piedi e con umiltà bacio questo suolo e i vostri piedi benedetti. Un Abate deve con coraggio saper affrontare qualsiasi asperità, con coraggio ribadisco, quel coraggio che viene giorno dopo giorno anche se alimentato e fortificato dalla preghiera messo a dura prova. Signore, Signore ho da farvi una confessione, il pensiero che più mi assilla e che incastra le sue maglie nei meandri della mia mente, spesso si veste di rosso, rosso come il sangue che rigò la vostra pelle e il vostro volto. Mi chiedo e vi chiedo quanto è sottile la linea che divide il bene dal male, esistono uomini buoni e uomini cattivi o esistono solo gli uomini. La debolezza appartiene agli esseri umani e un abate, si un abate non è forse un essere umano? La fede non può vacillare perché è questo che voi volete non è vero? Dite, dite ve ne prego ho bisogno di un vostro cenno, di una vostra asserzione. Sapete a volte è come se mi sentissi un battello ebro. Le incombenze sono come un macigno che mi schiaccia giorno dopo giorno e il pensiero di Frate Bruno tormenta il mio cuore al punto di rendere le mie notti insonni. Non sono degno di voi, voi che avete sacrificato la carne della vostra carne. Come ben sapete Signore in questa valle odorosa prolifica di svettanti fusti è vissuto Frate Bruno, io so di aver peccato accogliendolo qui, è vero era il figlio della malefica Arabella ma era piccolo e indifeso, come potevo abbandonarlo, nei sui occhi si leggeva la disperazione. L’ Abate dovrebbe essere un punto fermo, un’ancora ben salda nel fondo del mare, dovrebbe rappresentare il rigore, la certezza, mai dovrebbe far trasparire la propria debolezza. Dovrebbe essere la quercia che ripara il viandante dal sole cocente che acceca. Spesso metto dei sassi sotto le mie doloranti ginocchia, quelli più appuntiti e li faccio penetrare nella carne per infliggermi le pene più gravi, uso il cilicio Signore per segnare le mie spalle di peccatore quando penso che il diavolo voglia imparentarsi con me. Ma Bruno frate Bruno non può essere scomunicato e decapitato. Vorrei poter essere come voi Signore voi che avete saputo con amore e dignità portare la vostra croce. Quante umiliazioni avete subito siete stato percosso sputato in faccia, avete sopportato senza batter ciglio il dolore della corona vi prego facciate che il ragazzo possa portare la sua croce come voi”.
Marta era disperata, aveva appreso la triste notizia e non riusciva a darsi pace, aveva saputo da meretrici più vecchie della parentela che legava il Cavaliere Romualdo e frate Bruno, cosicché, un giorno, decise di cercare il Cavaliere, che, dopo essere stato ferito in un sanguinoso agguato ed essere stato per lunghi anni lontano da San Salvatore, era tornato a corte. Dopo vari tentativi riuscì a parlare con lui e gli spiegò la sua disperazione per Bruno. Il Cavaliere non riusciva a capire, la stava quasi per scacciare, quando Marta addolorata si inginocchiò e gli mostrò il ciondolo. Alla vista del ciondolo Romualdo ammutolì. Abbacinato dalla memoria, improvvisamente lo riconobbe, era quello che lui aveva regalato con tanta devozione ad Arabella non sapendo che fosse la strega più temuta della Valle Telesina. Si erano amati diciotto anni prima sulle sponde del fiume e proprio lì, vicino alla sorgente del rio era stato concepito Bruno. Romualdo non aveva mai saputo di suo figlio, era dovuto partire per l’importante spedizione e una volta tornato aveva cercato disperatamente Arabella, di cui non aveva avuto più notizie. Alla vista del ciondolo prese il destriero e si apprestò a raggiungere il Castello. Quando il re lo ricevette egli s’inginocchiò davanti a lui e gli raccontò dell’accaduto. Il Re aveva sempre avuto un debole per il Cavaliere, tempo addietro l’aveva salvato dall’ attentato ordito di suo cugino Sigismondo di Castel Campagnano. Così con l’aiuto di San Anselmo scrisse con sollecitudine al Vescovo e gli chiese la grazia per Bruno.
Il fratello maggiore di Romualdo, Ruggero di Faicchio era un feudatario ricchissimo, in punto di morte convocò il Cavaliere al suo capezzale. All’ epoca i fratelli maggiori godevano del privilegio delle famiglie, i padri per non sperperare il patrimonio lasciavano loro l’intera eredità. Tutto il feudo era passato a Ruggero, ed era per quel motivo che Romualdo a soli sedici anni aveva indossato dignitosamente l’investitura di Cavaliere. In un lascito Ruggero di Faicchio decise di lasciare tutti i beni a suo fratello. Romualdo per esaudire la volontà del figlio fece una cospicua donazione all’ Abbazia. I frati si misero subito all’ opera e in poco tempo ricostruirono la facciata e la torre imperfetta su progetto di Frate Bruno.

L’infanticidio: breve excursus s’un crimine antico

Anita Napolitano

Il fenomeno dell’infanticidio, ossia l’uccisione volontaria del neonato o del bambino, affonda le proprie radici in tempi assai remoti e riguarda, non solo le più famose popolazioni occidentali che ci hanno preceduto, ossia i Greci e i Romani, ma anche altre genti più antiche o primitive, come ci tramanda la storia. Esso è narrato dalla letteratura ed è presente in molti rituali mistico-religiosi.

Parlando di infanticidio, bisogna distinguere l’aspetto del cosiddetto feticidio, che, sebbene equiparato giuridicamente al primo, è dettato da ragioni molto diverse. Il feticidio, infatti, sta ad indicare l’uccisione del nascituro prima o durante il parto. Nei secoli scorsi, questa pratica era usata di frequente dalle donne non sposate, ossia entrate in gravidanza senza matrimonio; poiché tale condizione era ritenuta immorale, l’uccisione del feto aveva lo scopo di difendere l’onore della ragazza e di ripristinarlo insieme a quello della sua famiglia.

Diverse, invece, le motivazioni alla base dell’infanticidio. Etimologicamente, la parola infanticidio ha origine da infante, che deriva, a sua volta, dal latino infans, bambino. Infante fu introdotto in Spagna nel XIII secolo, per designare il figlio maschio, primogenito e legittimo, del re. In seguito, questo titolo fu sostituito da quello di Principe delle Asturie, poiché il primogenito era destinato a diventare Re di Castiglia. Il nome infante, tuttavia, non venne abolito, ma trasferito a tutti gli altri figli del re e, generalmente, fu esteso per indicare ogni bambino comune.

Poiché solo il figlio primogenito maschio poteva accedere al trono, spesso accadeva che la regina, e lo stesso re, uccidessero il primo nato, al fine di garantire la successione al secondogenito. Ciò avveniva quando il neonato era in vita già da diversi giorni, quindi non più in forma di feto. Appare chiaro come la decisione che spingeva all’infanticidio, nell’ambito delle case reali, fosse per motivi puramente politici, ossia per ragion di Stato.

Nelle famiglie comuni, invece, esso serviva a occultare l’adulterio compiuto dalla donna, o anche per eliminare figli dall’aspetto sgradevole o con malattie deformanti. In merito a quest’ultimo caso, la storia e la letteratura ci offrono svariate testimonianze.

Ad esempio, lo storico greco Licurgo, nei suoi scritti sugli usi e costumi del popolo spartano, riferisce la brutale usanza di gettare i bambini affetti da malformazioni nella voragine sottostante al Monte Taigeto. In questo caso, i motivi dell’infanticidio vanno individuati nel modus vivendi e nella cultura della popolazione di Sparta, storicamente nota per la crudeltà e per l’inclinazione alla guerra e a tutto quanto la riguardasse; di conseguenza, le virtù privilegiate erano la perfetta salute e il vigore fisico. Dal momento che gli Spartani addestravano fin dalla prima infanzia i propri figli all’arte del combattimento, era considerata vergogna crescere bambini malati, deformi, incapaci di difendersi. Sopprimendoli, dunque, essi si liberavano di pesanti fardelli, inutili e nocivi alla società.

Come s’è accennato, oltre ai Greci, anche i Romani praticavano l’infanticidio, con motivazioni che rientrano sia nella sfera storica, sia in quella mistico-religiosa. Molti storici concordano nell’attribuire a Livia, seconda moglie dell’Imperatore Augusto, l’uccisione del bambino legittimo erede al trono, per sostituirvi il suo primogenito avuto dal matrimonio precedente.

Sotto l’impero di Nerone, inoltre, erano diffusi riti religiosi e magici importati dall’Oriente, che prevedevano anche il sacrificio dei neonati.

In epoca posteriore alla nascita di Cristo, si ha testimonianza di popolazioni di origine celtica e scandinava, che veneravano le divinità offrendo loro il sangue dei bambini.

Né va dimenticato l’eccidio dei primi nati ebrei da parte degli Egizi, documentato dai nostri Testi Sacri e da altri scritti storici. In questo caso, le ragioni che mossero il popolo egizio a commettere tale strage, oltre che un esplicito significato religioso, ebbero di sicuro una forte valenza politica, poiché, com’è noto, il popolo ebreo stava conoscendo una tale espansione demografica da non poter essere più tenuto a lungo in schiavitù.

Un popolo estraneo al ceppo europeo, che impiegava anch’esso l’infanticidio con finalità religiose, è quello degli Aztechi. Come quasi tutti i popoli precolombiani, essi praticavano una religione politeistica e avevano una cultura religiosa molto profonda. Ossessionati dalla precarietà cosmica, credevano che la loro esistenza fosse costantemente minacciata dalle popolazioni nemiche e dalla collera degli Dei. Essi, pertanto, pregavano le divinità, offrendo loro sacrifici umani nei quali, spesso, immolavano i bambini. Come per gli Spartani, tali sacrifici erano concepiti per il bene della comunità, ritenendo che, più numerose erano le vittime, più gli Dei avrebbero concesso prosperità al popolo.

Come sappiamo, in letteratura sono molte le vicende che narrano storie di infanticidio. Per tornare all’antichità, è d’obbligo ricordare la tragedia Medea, nelle due versioni scritte rispettivamente da Euripide e da Seneca. La maga Medea, in preda al furore causatale dal tradimento di Giasone, uccide per vendetta i propri figli. Anche qui predomina l’elemento mistico: infatti, la donna, prima di compiere l’atto criminoso, esegue un rito magico di propiziazione. Essendosi così assicurata il favore degli Dei, ella compie l’assassinio, col quale potrà cancellare per sempre ogni legame con Giasone. Ma, al di là di questa motivazione psicologica, molti scrittori ritengono che, in realtà, Medea avesse ucciso i propri figli per impedire che la progenie greca potesse un giorno soppiantare quella orientale, come poi, di fatto, accadde. Anche in Medea, dunque, esiste un movente politico dell’infanticidio, come abbiamo osservato già a proposito degli Egizi.

Una leggenda antecedente al mito di Medea, riguardante anch’essa il sacrificio di un figlio, è quella narrata da Omero nell’Iliade, dove il re Agamennone uccide Ifigenia bambina per propiziarsi gli Dei e vincere la guerra contro Troia. Nuovamente prevale anche qui il motivo religioso unito alla finalità politica.

Ma, uscendo dal mito e dalla letteratura, e guardando ai giorni nostri, dobbiamo osservare con costernazione che il crimine dell’infanticidio continua a mietere ancora molte vittime, e in numero che, di anno in anno, tende ad aumentare in modo esponenziale. Ce ne informa, attraverso i media, la cronaca nera, sempre più fitta di delitti particolarmente violenti. Ma, i motivi scatenanti non sono troppo diversi da quelli del passato. Si uccidono i figli in tenera età per vendicarsi di un tradimento, oppure per grave disagio psicologico e sociale da parte della madre o del padre; si immolano neonati nei riti praticati dalle sette di Satana; si impiegano bambini come kamikaze o si sfruttano per scopi bellici in quei Paesi dove i conflitti sono più aspri e senza soluzione.

Tutte queste motivazioni, come in passato, hanno lo scopo di giustificare un atto criminale che, non solo pone fine a una vita umana in tenera età, ma mina profondamente la società, riducendola nella specie e impoverendola nei suoi valori strutturali.

Un episodio atroce di infanticidio fu quello accaduto a Roma nel 2012, quando Patrizio Franceschelli, il 4 febbraio, nei gelidi giorni della neve, lanciò nel Tevere il proprio figlioletto Claudio di appena 16 mesi. L’uomo, subito reo confesso, compì il crimine in seguito all’ennesimo litigio con l’ex compagna e mamma del piccolo, per vendetta contro la donna che lo aveva lasciato. Il corpicino del bimbo fu trovato solo il 29 marzo, alla foce del Tevere, quando due ragazzi notarono un fagottino nel fiume e diedero l’allarme. Il padre, già arrestato con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dal vincolo di parentela, fu condannato a trent’anni.

L’opinione pubblica rimase fortemente scossa dalla vicenda. Altrettanto io, che decisi di scrivere una poesia in memoria del piccolo Claudio. La riporto qui, a conclusione di questo mio excursus sull’infanticidio, con l’intento di offrire al lettore qualche spunto di riflessione.

Ninna nanna Al bimbetto gettato nel Tevere

il 2 febbraio 2012 dal papà)

Ninna nanna, nanna ninna

er pupetto vo’ la zinna

Al Fiume barbuto,

Beatrice ha affidato il bianco respiro…

e il fetido braccio dell’orbo 

quel giorno sull’ orlo di marmo ha amputato…

Sul ponte glorioso… tra i ponti allineati,

piove la neve…

e il sole bagnato ha bendato le ciglia.

E da lì che è volato… 

giù, giù tra gli opachi fondali 

e tra i ciuffi di erba bagnata.

Beatrice ha comunque sperato

e senza la testa…

lì, lì, lì in ginocchio ha pregato.

E su, su, su in cima al castello 

l’arcangelo biondo

ha riposto la spada 

e contempla le strade,

le case e le vite di carta…

Chino è il suo capo 

e attenti i suoi occhi 

a cercare il figlio adottivo del fiume,

e giù, giù, giù con mano fiorita il bimbo accarezza.

E su, su, su quando il buio inghiotte la luce,

le acque clandestine s’ acquietano,

piove la neve

E giù, giù, giù fradice le zolle

dal cuore grosso tacciono.

E su, su, su increduli i gabbiani d’ asfalto 

cercano riparo sotto le arcate dei ponti allineati.

Affannate giungono le figlie di Tevere

con la cornucopia,

Beatrice piange e canta la ninna nanna:

Ninna nanna nanna ninna

er pupetto vo’ la zinna…

E giù, giù, giù dorme il figlio di Medeo

nel giaciglio di fogliame.

Requie non trova il braccio orbato 

e giù, giù, giù nell’ abisso ammara 

il bimbetto gli tende le candide manucce.

Note:

Fiume barbuto Tevere

Beatrice Cenci giovane nobildonna romana accusata di parricidio e giustiziata in pubblica piazza a Castel Sant’ Angelo. Una leggenda narra che il fantasma dell’eroina si aggira nei pressi del greto del fiume dove è stata rinvenuta la spada lunga 101 cm

Ponte glorioso ponte Mazzini che collega il lungotevere dei Sangallo al lungotevere della Farnesina dove è stato gettato il bimbo dal papà. 

L’arcangelo biondo nell’atto di rinfoderare la spada giustapposto sull’ antico Mausoleo di Adriano situato sulla sponda destra del Tevere lascia immaginare una pace mai definitiva.

Ninna nanna nanna ninna

er pupetto vo’ la zinna… testo di Trilussa rivisitato da Baglioni

“Febbre segreta”

Amami per una sola notte
e sacro sarà l’intrecciarsi delle gambe
Amami per una sola notte e una soltanto
e sacro sarà l’intrecciarsi delle mani,
accosta il tuo inguine al mio,

la mia voglia vermiglia placherà la sete

lontani dalle regole ufficiali

invocheremo la luna genuflessi,
l’ uno avvinghiato all’ altro
resteremo nell’ altrove.

Amami una sola notte e una soltanto,
non mi importa di quello che diranno.

Cupido araldo della focosa passione
legherà il tuo petto al mio
e sarà il ricordo a perpetuarsi
nella memoria.
Ho indossato
la superba livrea della giovinezza,
le scarpe della festa,
spogliarmi in penombra
sul giaciglio di fogliame
tra i ciuffi di erba bagnata
e amami una notte e una soltanto
come sai fare tu, guerriero offeso
non mi importa di quello che diranno.
Incidi con la lingua le parole,
travaglio della mente,
febbre segreta,
ammutuliscimi con i tuoi baci
inghiottiremo la saliva amara.

Amami per una sola notte
e una soltanto e poi dimenticami.

Cuore sciocco

E… a immalinconirmi

la pioggia questa sera

che costante rumoreggia.
Avrei voluto un cenno,
una parola, le labbra posate
e quell’ abbraccio stretto
che fa incontrare il cuore.
Mi manca quell’ iride marrone
in questo secondo mese
ignaro ancora della primavera,
quell’ accarezzarti il capo
e le giunture, quel parlarti sopra
di cose diverse e sempre uguali.
Mi manca e per pudore
non vorrei dirti… che…
per me fu amore e quel rogo
mai si spense.
Vorrei poter volare con l’ ippogrifo
nell’ iperuranio e gridare
al mondo intero che il vuoto
regnò sovrano da quando
in quel giorno di mezza estate
abbacinati dal radioso sole
te ne andasti così, senza spiegare…

Ora che il silenzio ci separa
e incenerisce la parola,
ti cerco ovunque invano.
E se l’ amore non muore mai
ehi… dico a te guerriero offeso
dal purpureo manto,
a te che sai di cosa parlo…
e se l’ amore come dici tu
non muore mai e se anch’ io albergo
in un piccolo angolo del petto
tendimi le braccia,
quelle possenti braccia di guerriero
che mi cingesti ai fianchi,
quel giorno tra i filari delle viti,
sposi per una notte
testimoni le superbe stelle.
Accendimi quel sole opaco
come solo tu sai fare
invitami al banchetto dei sensi
a bere il nettare d’ ambrosia,
sarò lì a bramarti con le cosce tese.
Mai incataggione fu più dolce
questo cuore sciocco
sarà ancora il tuo schiavo.

Letto disfatto

Imposte dal vento sbattute,

vacilla la mente ubriaca,

riaffiora il ricordo nebbioso

di notti andaluse.

La firma del tempo

sui rami protesi,

un fiore appassito,

un disco graffiato,

la nostra canzone.

Il lampo invade la terra

e piove sui pini allineati,

ritorna il travaglio

l’inchiostro trabocca,

stropiccio le carte

e getto la colpa.

Vacilla la mente ubriaca,

blasfema è la vita,

insegui chi insegue,

insegui chi fugge

mi appello a Testili che gira la ruota.

E scende la notte

e Ecate guarda

sibila il vento,

riaffiora il ricordo,

singhiozza il pensiero,

e si veste di nero.

Pungente è il dolore

di un letto disfatto,

di giochi proibiti

di un amore andato,

e mai più ritornato,

di un cuore squarciato

deluso e tradito,

in un letto vissuto, amato,

e alla fine ingiallito.

Nota Redazione:

Testi ricevuti per gentile collaborazione dell’autrice a cui sono riservati i diritti per il copyright.

Inserimento dati:

Lidia Popa

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