Corrado Calabrò

Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria, sulla riva del mare.

Il primo volume di poesie di Calabrò, scritto tra i diciotto e i vent’anni, venne pubblicato nel 1960 dall’editore Guanda di Parma col titolo Prima attesa.

Sono venuti poi altri ventitre volumi, tra cui:

Agavi in fiore (1976), ed. SEN; Vuoto d’aria (1979 e 1980), ed. Guanda;Presente anteriore (1981), ed. Vanni Scheiwiller; Mittente sconosciuta (1984), ed. Franco Maria Ricci; Rosso d’Alicudi, pubblicato nel 1992 da Mondadori, raccolta completa (all’epoca) delle poesie di Calabrò; Lo stesso rischio (Le même risque) (2000), ed. Crocetti.; Le ancore infeconde (2001),  ed. Pagine. 

Nel 2002 ancora Mondadori ha pubblicato una vasta raccolta dell’ultraquarantennale produzione poetica di Calabrò, in un Oscar dal titolo Una vita per il suo verso .

Del 2004 è la raccolta Poesie d’amore, edita da Newton & Compton.

Nel 2009  sono uscite due importanti raccolte:

  • La stella promessa, nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori;
  • T’amo di due amori, raccolta tematica delle sue poesie d’amore (con un CD che contiene 19 poesie lette da Giancarlo Giannini), Vallardi;

Recenti edizioni italiane di Calabrò sono:

  • Dimmelo per SMS (Vallardi, 2011);
  • Rispondimi per SMS (Vallardi, 2013);
  • Mi manca il mare (Genesi Editrice, 2013);
  •  Stanotte metti gli occhiali da luna (Genesi Editrice, 2015);
  • Mare di luna (Il Convivio Editore, 2016).

Le ultime pubblicazioni sono:

In Italia :

Quinta dimensione (Oscar Mondadori, 2018), che è la più completa opera poetica di Calabrò.

All’estero:

  • Acuérdate de olvidarla (Pigmalión Edypro, Madrid, 2015), alla quale è stato conferito il Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015.
  • Janelas de siléncio, Vasco Rosa, Lisbona, 2017.
  • Underdose, Pretoria, 2018.
  • Glasets Hemlighet, Hovidius Förlag, Göteborg, 2018.
  • Astroterra Αстрoземјія, Вuбрαhi noeзϊϊ, Яиϊв «Либідь, 2020.

Sono più di trenta le edizioni straniere delle sue opere in venti lingue: oltre le traduzioni di poesie singole, sono stati pubblicati sei libri in spagnolo, cinque in svedese, cinque in inglese; tre in ucraino; due in francese, russo, ungherese, portoghese; uno in tedesco, rumeno, serbo, greco, polacco, danese, ceco.

Delle poesie di Calabrò sono stati fatti vari compact disks  con le voci di alcuni dei più apprezzati interpreti: Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. Il suo poemetto Il vento di Myconos (tradotto in greco) è stato trasposto in musica classica: la prima rappresentazione è avvenuta a Roma, nell’Auditorium Santa Cecilia, il 6 dicembre 2005.

I testi di Calabrò sono stati più volte presentati in teatro, in recitals-spettacoli, in varie città in Italia e all’estero (Roma -al Teatro Argentina e all’Auditorium Conciliazione-; Torino -al Teatro Regio e al Teatro Gobetti-; Milano -al “Piccolo”-; Genova -al Teatro Govi-; Firenze –al Teatro La Pergola-, Bari, Cagliari, Orvieto, Foggia, Arezzo, Perugia, Pesaro, Lodi, Potenza, Catanzaro, Vicenza, Vercelli, Cosenza, Pavia, Reggio Calabria, Messina, Verona, Novara, Aosta, Biella, Firenze, Padova, Bologna, Sidney, Melbourne, Varsavia, Parigi, Buenos Aires, Madrid, Montecarlo, Malta).

Calabrò ha pubblicato anche alcuni saggi critici, tra cui: Per la sopravvivenza della poesia uccidiamo i poeti, “Poesia” Crocetti,n. 143, ottobre 2000;  Il poeta alla griglia, “L’illuminista”, dicembre 2003; Rappresentazione e realtà, Nuovi Argomenti, aprile/giugno 2011.

Calabrò è anche autore di un romanzo, Ricorda di dimenticarla (Newton & Compton, 1999), finalista al premio Strega del 1999, tradotto in rumeno (Editore Augusta, Timişoara, 1999) e in spagnolo (Sial Pigmalión, Madrid, 2017).  Ad esso è liberamente ispirato il film Il mercante di pietre,regista Renzo Martinelli.

Numerosi i premi letterari e i riconoscimenti ricevuti per la sua attività letteraria, tra cui le Lauree honoris causa da parte dell’Università Mechnikov di Odessa nel 1997,  dell’Università Vest Din di Timişoara nel 2000 e dell’Università statale di Mariupol nel 2015. Nel 2016 l’Università Lusófona di Lisbona ha attribuito a Corrado Calabrò il Riconoscimento Damião de Góis.

Nel luglio 2018 l’Unione Astronomica Internazionale, su proposta dell’Accademia delle Scienze di Kiev, ha dato all’ultimo asteroide scoperto il nome di Corrado Calabrò per avere rigenerato la poesia aprendola, come in sogno alla scienza.

Stormcloud  

Sei apparsa sul mio sentiero

come una nuvola fredda

che in un istante è grande quanto il cielo.

Corrado Calabrò

Una lama nel miele

Una scaglia dorata ricopre

il grembo senza sale

del mare di gennaio.

S’allunga il fiume nel golfo invetriato

come una lingua nel miele.

Pugnala a freddo l’azzurro

la scia di ghiaccio di un Phantom.

Come una lama nel miele

affondi nel cuore il tuo sguardo.

Corrado Calabrò

Sole di paglia

Hanno la febbre i pesci

a primavera.

Esita maggio

a schiudere i boccioli.

Sole di paglia:

così chiamano il sole a Sabaudia

di fine aprile e dei primi di maggio.

Questo lago

sembra in sé concluso

ma sotto sotto scambia

le sue acque col mare

per filtrazione.

Mi s’è ristretto

il lettino nelle spalle.

Chi di noi due

ha fatto il primo passo?

Hanno la febbre i pesci

sotto l’acqua surriscaldata

come le serpi

sotto il fieno in fermentazione.

Annuso un bocciolo

non dischiuso

e una foglia d’alloro tarlata;

di tanto in tanto

riaccendo il cellulare.

Oggi ci sono le finali

degli Internazionali(1) al Foro Italico.

E oggi è pure la festa del lavoro;

con tante feste

ormai è una convenzione.

Sotto la duna di sabbia

questo lago

è in comunione segreta

col mare;

ma i pesci non riescono a passare.

Tocca a chi ha fatto il primo passo

fare adesso il secondo:

un passo indietro.

Devo solo aspettare quel passo

come Maometto aspettò la montagna.

Esita maggio…

E’ tutto il giorno

che i pesci non abboccano…

E se fosse un passo a due?

La tua bellezza, ai tuoi occhi, ti autorizza

a essere conclusiva e inconcludente…

Ma a nessun costo ti devo chiamare:

meglio perderti

perché non m’hai chiamato

che per averti cercata

una volta di troppo

in controtendenza.

Questa branda funziona da letto

di contenzione;

ora mi s’è ristretta

sotto il petto.

Tutta una fila

di eucalipti impalati

si sventola piano le ascelle

con le foglie:

imparerò la fermezza dagli alberi.

E se mi ritrovassi

per caso al Foro Italico?

Potrei arrivare a Roma in treno, in taxi,

a nuoto e fors’anche in bicicletta.

Alla fin fine, quando scese il buio

fu Maometto ad andare alla montagna

dopo averla fissata tutto il giorno

con gli stinchi incrociati.

Nuvole in gregge

s’ammassano in attesa.

Ho gli occhi irritati

la fronte febbricitante

e la schiena lardellata

forse per allergia al primo sole.

Non si getta la spugna per amore

né per incontinenza

ma per aver bruciato il primo giorno

sulla spiaggia

la nave del ritorno.

Sole di paglia:

così chiamano il sole a Sabaudia

di fine aprile e dei primi di maggio.

S’ingrugna il mare e sbavazza

dando grandi panciate

contro la duna di sabbia sommersa.

Sento una goccia

appiccicosa come resina.

Un pescatore ripone la lenza

e mette gli ami sparsi nella sacca.

Il cielo s’è oscurato

e i pesci sono scomparsi

come se non ci fossero mai stati.

Sole di maggio:

sconsigliato dai medici

ai romanisti irriducibili

agli allergici

agli insaccati freschi

e agli amori stagionati.

Aspettando un segnale

di momento in momento – che so,

una chiamata persa, un messaggio –

nel cellulare spento

non m’ero accorto

che il lago s’è oscurato

non m’ero accorto

ch’è cambiato il vento.

Corrado Calabrò

Verrà l’amore ed avrà le tue labbra

Sì, sì, ci credo, ma come Tommaso.

Credo alla luna solo se la vedo.

Proprio così:

la luna esiste solo se la guardi.

Non ci credi?

Togliti le lenti d’ogni giorno

sciogli i capelli

e metti gli occhiali da luna.

Vedrai venire – lo vedrai tu sola –

venire a te lungo un binario ignoto

l’amore entrato in fase con la luna

e senza che lui dica una parola

tu gli offrirai tremante le tue labbra.

Corrado Calabrò

Ma più che mai…

 Dall’inizio mi manchi,

come l’acqua alla sete del deserto.

Mi manchi quando ti cammino a fianco:

non vanno nella stessa direzione,

se non per breve tratto,

due treni su binari paralleli.

Mi manchi quando sono con un’altra,

come manca la freccia alla ferita

che per la sua estrazione si dissangua.

Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove

perché all’assenza di te

non c’è un altrove.

Corrado Calabrò

Anita

Vidi il Rio Pardo risalire il fiume

contro corrente.

Balzasti dalla tolda così accanto

che incespicai nel salire la soglia,

la gola ansante ed il vestito stretto.

Non ebbi tempo di prendere tempo:

come l’ago il filo

come la calce l’acqua

come la serratura la chiave

il mio corpo di sposa t’aspettava.

Quando chiusi la porta alle mie spalle

nessuna casa era più la mia casa.

Contro ragione e contro ogni altra legge

con le ginocchia forti

ed i fianchi tremanti

ho cavalcato il torrente del mio sangue.

Come la vela il vento

come l’erba la pioggia

come il mare la luna

ti chiedevo.

Da Laguna a Porta San Pancrazio

per mari trasmutanti in praterie

dalla pampa alla palude di Ravenna,

come la candela la fiamma

come il grembo un figlio

oltre il desiderio di vita

oltre il desiderio di morte

accanto al tuo respiro t’ho cercato.

Corrado Calabrò

Roaming

E’ apparsa già da qualche ora Venere

ma non è sorta ancora la Luna.

Il grecale ha spazzato lo scirocco

ed il cielo è più limpido e più grande.

E’ questo il paradosso degli umani:

solo al buio c’è concesso di vedere

quel mondo cui il giorno ci fa ciechi.

Ma la notte è incognita a se stessa,

dinanzi a Lei anche Zeus indietreggia.

Stanno tra le sue braccia Moira ed Hypnos

e sono –Sogno e Destino- gemelli.

Fila come una boccia l’Astroterra

con la sua luna di scorta

teleguidata ipnoticamente

dal ricordo perduto del futuro.

Sotto stupite stelle

si smarrisce per noi la distinzione

tra provenienza e destinazione.

Più l’universo sembra comprensibile,

più appare privo di scopo.

                                 (Steven Weinberg)

Corrado Calabrò

Poesia e scienza

Recentemente Carlo Rovelli si è doluto che molti uomini di cultura, ignorino la scienza moderna ed ha osservato che è una menomazione per un poeta ignorare la scienza come per uno scienziato non sentire la poesia.

Sono totalmente d’accordo con lui.[1]

Nelle scienze si cerca di dire in un modo che sia capito da tutti qualcosa che nessuno sapeva. Nella poesia è esattamente l’opposto” osservava sarcasticamente Paul Dirac.

Ma non è così; la poesia non è mistificazione. La poesia cerca di dire in modo indiretto, allusivo, ma non finto[2], quello che attinge all’inesplicabile voce dell’inconscio, per aiutarci così a disvelare la suggestione dell’essere, dell’altro noi stessi che è in noi. E’ un tentativo di trait d’union tra l’esistere e l’essere.

No, la poesia non è il vuoto spinto, non è la fabbricazione del nulla (anche se vi si avvicina quando oltrepassa la possibilità di comunicazione).

E i critici non hanno il compito di controllare il traffico delle mosche, come certe correnti letterarie asfittiche hanno voluto farci credere nel lungo periodo di glaciazione della cultura (Jean Paul Aron) che abbiamo attraversato.

La poesia non ha la funzione di rivelarci la massa mancante all’universo visibile né di farci percepire l’esistenza delle onde gravitazionali o del bosone di Higgs.

Ma anche per parlare della cipolla, come ha fatto Neruda, ci vuole un’espressione rigeneratrice.

Funzione della poesia è rivelarci –foss’anche nella cosa più insignificante- un aspetto non percepito. Ci rivela di più Neruda con la sua poesia sulla cipolla che molte dissertazioni sociopolitiche, e anche religiose[3].

Ci siamo abituati ad appagarci di una visione banale del nostro essere nel mondo. Per la quotidianità ciò è sufficiente.

Ma nel fondo del nostro animo si annida l’insoddisfazione. Noi sappiamo che l’apparenza superficiale non è tutto. Quello che non percepiamo è molto più di quello che percepiamo.

Noi vediamo (con i nostri occhi e con tutti gli strumenti tecnologici di rilevazione) solo una minima parte della realtà e solo alcune delle molteplici dimensioni in cui essa è strutturata[4]. Ci è sconosciuta, non percepita nella sua fondamentalità, la stessa realtà che ci circonda e ci permea, la realtà di cui siamo fatti. Noi tocchiamo solidi e liquidi, vediamo colori, sentiamo suoni, odori, sapori.  Ma obiettivamente non esistono immagini, suoni, sensazioni tattili, sapori, odori. In realtà esistono soltanto vibrazioni, onde con diversa frequenza e lunghezza, particelle con funzioni d’onda.

Quello che vediamo, sentiamo, tocchiamo, gustiamo, odoriamo, è solo la proiezione metamorfica della realtà fine in cui siamo immersi e che struttura noi stessi.
Quella dei nostri sensi è una rappresentazione olografica di un’ultrarealtà che ci sfugge.  Viviamo, in certo senso, in un mondo soltanto simulato. “Alla nostra scala, immensamente più grande della scala di Planck, lo spazio è liscio e piano, e descritto dalla geometra euclidea. Ma se scendiamo alla scala di Planck, si frastaglia e schiumeggia”[5].

Ci sfuggono, poi, la materia e l’energia oscure (che rappresentano il 95% dell’Universo), la pullulante realtà quantistica (sulla quale, eppure, sono basati gli strumenti che utilizziamo: dai transistor ai laser, ai forni a microonde, all’illuminazione a led, alla microchirurgia, ai GPS, ai computer dal prossimo futuro).

Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dell’inadeguatezza della comunicazione.

“Tutto ha iniziato con la meraviglia, vera archè dell’umano guardare al mondo. Il «filosofare» (phisosophéin) -cioè l’amore per il sapere- ha le proprie radici nella meraviglia. Sviluppando un’idea già presente nel Teeteto di Platone, Aristotele sostiene che gli esseri umani hanno cominciato a ricercare il sapere, «sia ora sia per la prima volta», all’inizio meravigliandosi per le «aporie», o i problemi, «a portata di mano», e poi passando a questioni più importanti, «quali le fasi della luna, e i fenomeni riguardanti il sole e le stelle, e a proposito dell’origine dell’universo».

Bene, oggi qual è la disciplina che più incalza la conoscenza? Che più cerca di scoprire? La teologia è statica, la filosofia è in gran parte spenta; oggi la disciplina che cerca di avvicinarsi di più alla verità è una disciplina specialistica, è l’astrofisica. E’ l’astrofisica che oggi indaga senza tregua la cosmogonia, con i grandi interrogativi sull’origine e sulla fine dell’universo, sulla struttura intima della realtà, sulle particelle subatomiche, sulla materia e sull’energia oscure. Oggi sono soprattutto la fisica e l’astrofisica che si protendono sul limite ultimo del nostro orizzonte mentale.

Una disciplina specifica? I filosofi arricciano il naso. “Non può una disciplina specialistica come l’astrofisica dare risposte che competono esclusivamente alla filosofia!”

Sulla base dello stesso preconcetto per 1.400 anni l’umanità si è attestata sulla concezione aristotelica e tolemaica del cielo. Poi Copernico e Galileo ci hanno rivelato che non era il sole che girava attorno alla terra ma la terra che girava intorno al sole. I nostri occhi c’ingannavano. E’ bastato questo perché migliaia e migliaia di tomi finissero al macero. Così pure è stato per la fuga delle galassie scoperta da Edwin Hubble: ci ha rivelato l’espansione dell’universo cambiando la nostra visione del mondo e delle sue origini.

La ricerca della verità in un altro campo non va rifiutata con arroganza preconcetta. Bisogna vedere quanto porta avanti.

L’interdipendenza degli approcci caratterizza oggi, più che mai, la cultura. La scienza, nella sua ultima proiezione, si sovrappone all’arte e alla filosofia[6]. Oggi la fisica (dalla meta-fisica è caduto il prefisso) ha preso il posto della filosofia (e della teologia) nel tentativo di spiegarci cosmogonicamente l’universo.

E quanta creatività dimostra nella polluzione di teorie a getto continuo! Certo, sistemi che abbiano passato il vaglio di una qualche verifica sperimentale non ce ne sono molti. Ma basta la relatività (ristretta e ancor più quella generale) per aprire campi sconfinati a quello che può essere l’universo (o uno degli universi, in cui viviamo), a stimolare per millenni la nostra immaginazione (ad es. con la teoria in incubazione dei buchi neri). E nell’immensamente piccolo la meccanica quantistica ci suggestiona per la sua incomprensibilità coniugata con la sua praticabilità[7].

Può la letteratura, la poesia, rifiutare l’osmosi con la scienza senza autocondannarsi all’estinzione come i Catari?

Siamo arrivati a un punto di ricerca dell’ultima realtà per la quale non ci soccorrono più i mezzi di visione diretta.

Le particelle subatomiche non sono da noi direttamente percepibili. L’espediente cui ricorre la scienza moderna per coglierne un segno è questo: in circuiti potentemente magnetizzati macchine acceleratrici fanno scontrare come palle di biliardo particelle che viaggiano ad altissima velocità in direzione opposta. Le particelle non si vedono né prima né dopo lo scontro, ma in appositi rivelatori alcune scie luminose, con la loro angolazione e con la loro curvatura, consentono di desumere la brevissima esistenza di particelle subatomiche. Sennonché, anche quando l’esperimento riesce, esso ha fornito un’esternazione solo indiretta, per così dire metaforica, della realtà che lo scienziato ha intravisto intuitivamente. Non si sono viste nel rivelatore le particelle subatomiche né le loro onde, ma semplicemente i segni indiretti della loro presenza. Non solo; spesso non si vedono nemmeno le tracce delle particelle realmente esistenti in natura e ricercate, bensì quelle di altre particelle create artificialmente dall’alta energia della macchina acceleratrice, che delle prime rappresentano solo una trasmutazione, un effimero movimento di passaggio, poco più di un messaggio voluto, che si esaurisce in se stesso. Si esaurisce, cioè, nell’annunzio dell’evento realizzatosi in un attimo; così, senza alcuna funzione ulteriore. Eppure è l’ultimo orizzonte della realtà scientifica d’oggi.

Non è un ritorno al mito della caverna di Platone? All’uomo non è dato -sosteneva Platone- conoscere direttamente l’essenza della realtà; egli può scorgere solo la proiezione, l’immagine riflessa delle entità che scorrono fuori della caverna, proiettando sul muro le loro ombre[8].

Non c’è in questa epifania della scienza, che si rivela solo per metafore, un accostamento profondo all’arte?

“Credo che questo esempio mostri come la grande Scienza e la grande Poesia siano entrambe similmente visionarie, e talvolta possano arrivare alle stesse intuizioni. La nostra cultura, che tiene Scienza e Poesia separate, è sciocca perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo, rivelate da entrambe”.[9]

La poesia è protesa a superare la convenzionalità e l’usura del linguaggio, ma un modo per superarla è potenziarlo con integratori di conoscenza.

Il linguaggio si alimenta di conoscenza e ne è tramite. La scienza è ormai indissociabile (malgrado la nostra ignoranza) dal nostro modo di vivere, di pensare, di esprimerci, di relazionarci; sarebbe assurdo non tenere conto, escludere la scienza dal nostro linguaggio e dal nostro orizzonte mentale. Rifiutare conoscenze interdisciplinari, chiudere la botola sull’inconscio isolandosi eburneamente in una dimensione di estrema purezza letteraria, devitalizza la funzione espressiva, come un dente cui sia stato necrotizzato il nervo, blocca l’interazione nei circuiti cerebrali e ci fa regredire alla fissità piatta, stereotipata e quasi simbolista dell’icona, alla cultura monotematica e datata dei talebani, per i quali esiste solo quel che disse il profeta.

Intessere la trama della poesia con l’ordito della scienza, come un tempo s’intesseva col mito… Io penso che si possa, penso che si debba fare.

Anche quella della scienza, negli acceleratori di particelle, è una sorta di veggenza, una forma di metafora.

Sì, io penso che la poesia si debba rinsanguare tenendo il passo con l’evoluzione delle nostre conoscenze. Certo non con inserimenti didascalici, o meramente passivi, ma come stimoli vivificanti, come lenti che ampliano e approfondiscono la nostra visione, anche allegorica.

La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Come quando sul teleschermo grigio ballonzola un pullulare di puntini; premendo il tasto giusto, il televisore si sintonizza e un’immagine appare. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere; quand’anche piccolo come quello della formica che s’inerpica su una zolla per ampliare il suo campo visivo.

La poesia asporta la cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi.

Non sono solo la realtà nascosta dell’universo e il substrato fine della realtà in cui siamo immersi, che ci sfuggono. Ci sfuggono i fondamenti stessi della nostra esistenza.

Notava Rainer Maria Rilke nella sua Lettera a una giovane signora: “Com’è possibile vivere, se non possiamo affatto penetrare gli elementi di questa vita? Io non sono riuscito a esprimere tutto il mio stupore che gli uomini da millenni abbiano consuetudine con l’amore, con la vita, con la morte e stiano ancor oggi così sprovveduti di fronte a questi primi, unici compiti”.

Ecco, il poeta si porta dentro questo stupore.

Forse la vita è solo una “piroetta nel vuoto” (Cioran), ma più la realtà ci sfugge, più sentiamo il bisogno di preservare l’unicità del nostro vissuto, la suggestione di un’alba sul mare, l’emozione del primo amore, il dolore per la morte del nostro cane, il rimorso per un abbandono. Emozioni, percezioni provate e perdute; forse rimosse.

Facendoci percepire, con una sopravvenienza nella memoria involontaria, le sensazioni, le emozioni, i brividi di bellezza perduti, la poesia ci trasporta in una quinta dimensione[10], distogliendoci dalla camera premortuaria della nostra quotidianità e sottraendoci alla spietata irreversibilità dello spazio-tempo.

                                                                            Corrado Calabrò

1. Molte mie poesie, specie quelle di questi ultimi decenni, sono tesa a colmare questo divario, come ha riconosciuto l’Accademia delle scienze di Kiev che ha proposto all’Unione astronomica internazionale di dare il mio nome all’ultimo asteroide scoperto “per avere rigenerato la poesia aprendola, come in sogno, alla scienza”.

2. C’è una certa dose di finzione nell’invenzione poetica, nella misura in cui il poeta cerca di guidare la visione intravista, per renderla percepibile agli altri; e, d’altra parte, quella stessa visione può risultare in certa misura ingannevole, falsamente suggestiva, se sottoposta ai filtri dell’intelligenza, la quale comunque non rinuncia ad esercitare il suo controllo. Platone pensava così che in ultima analisi la poesia sia un inganno. Aristotele invece la riteneva più seria e filosofica della storia perché parla dell’universale. C’è una parte di verità in entrambe le affermazioni.

3. Corrado Calabrò, C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi? In Quinta Dimensione, Oscar Mondadori 2018.

4. Sono ipotizzate fino a 10 e più dimensioni; ma certamente sono più di tre.

5. Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, pag. 92.

Forse lo spazio ha una struttura discreta, reticolare.

6. Cfr. C. Calabrò, Per la sopravvivenza della poesia uccidiamo i poeti, in «Poesia», Crocetti, n. 143, ottobre 2000.

7. La fisica quantistica offre una categoria tutta sua di paradossi che nascono quando si cerca di capire e interpretare i fenomeni quantistici con i nostri occhi, le nostre orecchie ecc., insomma con i nostri cinque sensi e con un cervello sviluppatosi con l’evoluzione darwiniana in un mondo macroscopico.

8. Platone, La Repubblica, libro VII.

9. Carlo Rovelli, La realtà, cit., pag. 92.

10. Diversa è, ovviamente la concezione scientifica di una quinta dimensione formulata da Thedor Kaluza, il quale ha mostrato che, estendendo lo spazio-tempo a cinque dimensioni, era possibile produrre le equazioni di Einstein a quattro dimensioni, più un sistema extra di equazioni equivalente a quella di Maxwell per l’elettromagnetismo.

Il nonnulla che fa la poesia

Sono nato sulla riva del mare; certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della nostra casa ai bordi della spiaggia.

L’estate era il mio ambito di libertà. Seguivo con lo sguardo le navi che, lasciato lo Stretto di Messina, rimpicciolivano sempre più fino a venire inglobate nella distesa liquida. Il mare si apriva dinanzi a me col mistero, con la sorpresa di quello che avrei trovato spostando sempre più in là l’orizzonte.

Oggi il baricentro politico economico dell’Europa è collocato a Nord. Ma un tempo era collocato a Sud. Intorno al 1050 il regno di Sicilia (che comprendeva la Calabria e la Puglia) aveva un budget e una popolazione superiore a Paesi come la Germania o l’Inghilterra. Il core business del commercio era col Medio Oriente e con l’Africa e il mare di quei traffici era il Mediterraneo. Il “Mare di mezzo” non divide ma congiunge. Al tempo in cui i trasporti per terra erano così faticosi, il mare era una grande piattaforma da una sponda all’altra, una grande autostrada liquida sulla quale scorrevano i traffici e gli scambi culturali. Come osservava Paul Valery “La medesima nave, la medesima barchetta portavano le merci e gli déi, le idee e i metodi. Quante cose, per contagio o per irradiamento, si sono sviluppate sulle sponde del Mediterraneo! In questo modo si è costituito quel tesoro cui la nostra cultura deve quasi tutto, nelle sue origini: posso dire che il Mediterraneo è stato una vera e propria “macchina per fabbricare civiltà”. Ma tutto questo, creando affari, creava al tempo stesso, necessariamente, la libertà dello spirito”.
Lì, nella mia Calabria, nel mare di Riace che ho attraversato tante volte a nuoto, sono state ritrovate qualche decennio addietro le statue dei guerrieri di bronzo. Si tratta di due statue risalenti al V secolo a.C., tra le più belle pervenuteci dall’antichità e in assoluto le più belle statue di bronzo oggi esistenti. Sono rimaste per secoli adagiate sul fondo sabbioso sotto pochi metri d’acqua, dopo un naufragio della nave che li trasportava, e sono emerse ai nostri giorni come se l’antico scultore le avesse scolpite per noi. Le stavano trasportando dalla Grecia alla Magna Grecia o viceversa? L’interazione culturale tra la Grecia e Reggio e Locri era all’epoca così intensa che non c’è dato distinguere la provenienza dalla destinazione.
Il Mediterraneo non è il non-luogo dell’utopia, ma un topos storico-sociale geo-politico, fondato su un comune atteggiamento spirituale. “Méditerranéiser la pensée” significa recuperare la grande spinta culturale che ha fecondato le nazioni fiorite sulle rive del “mare di mezzo” e riproporla come nuova spinta evolutiva dei nostri popoli all’insegna della ricerca, della formazione, dell’innovazione tecnologica, dell’affermazione dei valori di convivenza pacifica, della interrelazione tra aree culturali diverse, pur nel riconoscimento della specificità delle diverse culture.
Perché parlo del mare volendo parlare si poesia? Perché c’è similitudine. Dice un antico proverbio marinaro dei tempi in cui parte del pianeta era ancora da scoprire: Quando sei in mare non seguire nessuna delle rotte tracciate; al massimo potresti arrivare dove è arrivato qualcun altro. Anche la poesia sposta più in là l’orizzonte. Il poeta ha l’illusione di creare il mondo con le sue parole. Un’illusione, certo, ma sotto sotto ci sono processi mentali di indisconoscibile validità. “Sulla parola” – scrisse Goethe – “si reggono gli archi dell’esistenza”. Non è solo un’espressione letteraria. I neurobiologi hanno riscontrato che la nostra mente ha una natura linguistica e che il nostro pensiero dipende dal linguaggio, il quale addirittura conforma la struttura del nostro cervello. Il che significa che siamo noi stessi, con le parole che facciamo nostre, a sviluppare la capacità di comprendere. In altri termini, che facciamo entrare il mondo dentro di noi!

Viviamo in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms, whatsapp, e-mail, in televisione. Telefonini, radio, televisione, computers hanno determinato un nuovo rapporto tra noi e il “mondo”. La logorrea orale e scritta scorre e scorre come un fiume lutulento. Tutto sembra essere stato detto in questo profluvio di parole che ci sommerge. Tutto, tranne quello che attendevamo: l’insoddisfazione viene saturata aumentandone la dose.

Paradossalmente, in tanta sovrabbondanza, il bisogno della poesia, della scrittura poetica, nasce dall’insufficienza del linguaggio. Quando sentiamo il bisogno di dire qualcosa di nostro, di nuovo, di non detto, ci accorgiamo che ci mancano le parole. La poesia è un po’ la scommessa sull’impossibile: dire qualcosa di non detto, forse d’indicibile, usando le parole, vale a dire il mezzo più usato, più abusato, più sciupato dall’uso quotidiano.

Ma, così stando le cose, cosa ci spinge allora alla scommessa così spesso perdente, al tentativo assoluto e fallimentare della poesia? Cosa ci spinge ad innamorarci? Se la nostra individualità ci bastasse non ci innamoreremmo. Se la vita ci bastasse non si farebbe poesia. La vita vissuta è conformazione. In amore, come nella poesia, a spingerci è il bisogno della parte mancante al senso-non senso della nostra vita.
Qualcuno, scimmiottando Nietzsche, ha detto che la poesia è morta. Può darsi. Ma è più probabile che, a furia di voler essere alternativi, i nostri movimenti poetici si siano rivelati alternativi alla poesia. E’ vero: La fiducia nella parola rivelatrice è scossa irreparabilmente. Così per le idee, per la verità trascendente come per l’intuizione estetica. E tuttavia noi avvertiamo l’esigenza di stabilire un contatto con qualcosa che vada al di là del ripetitivo e del convenzionale, avvertiamo sotto sotto che il fluire del quotidiano ottunde la conoscenza della realtà vera delle cose; una realtà destinata a restare in sé irrivelata, ma che in certi momenti, in certe circostanze, dà dei segni criptici della sua presenza.

La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Un trasalimento dell’ anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere. La poesia asporta la cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi. La poesia è una navigazione, ma dentro di noi, dentro la nostra anima, dentro la nostra capacità d’intendere. E la nostra coscienza non è meno grande del mondo. Sì, a volte -in un momento felice che ha del magico- un’immagine, una percezione, un’intuizione si stacca dal film travolgente del quotidiano e s’impone all’attenzione con una suggestione imprecisabile, condensando in sé un significato che ci conquista come una rivelazione, tanto da diventare un’immagine, una percezione, un’intuizione sovradeterminata: un orizzonte di significato è stato superato.
E’ questo, questo nonnulla che fa la poesia.

                                                                                               Corrado Calabrò

Ricorda di dimenticarla

La giornata predomenicale si annunciava afosa. Anche il mare, liscio come l’olio e denso come sansa, era così caldo e salato che quasi non dava sollievo.  Uno strato sottile di vapore ristagnava sull’acqua come se avessero passato il ferro da stiro. A mezzogiorno mangiarono solo cocomero, tenuto in fresco nel pozzo. L’acqua del pozzo era salmastra, per infiltrazione marina, ma per rinfrescare il cocomero andava bene lo stesso. Alceo e Leda si ritirarono in casa; ma si soffocava. Un’ora dopo, madidi di sudore, uscirono per sdraiarsi all’ombra che lentamente cresceva . Valerio e Gigliola, sui lettini di tela da campo, boccheggiavano ; Lodoletta frignava. Non c’era un alito di vento. Leda aveva solo il pezzo di sotto del costume ; anche Gigliola era in topless ma quando loro erano usciti si era coperta il seno. Leda invece, distesa nella sdraio con le braccia sollevate, se ne stava con assoluta naturalezza col petto nudo. Non aveva più il seno da ragazzina ; da tempo era prepotentemente sbocciato. Tuttavia nel viso e nel corpo Leda dimostrava meno dei suoi venticinque anni. Nell’atto in cui aveva alzato le braccia i due seni si erano sollevati e come animati, senza cambiare forma. Due pere sode e palpitanti : Alceo gliele avrebbe voluto succhiare.

Un cane dalla pelle di capra, pieno di zecche, se ne stava buttato in un filo d’ombra come un otre vecchio. Una pellicola appiccicosa s’era attaccata alla pelle ostacolando la traspirazione.

Leda stava soprappensiero, con le parole crociate sulle ginocchia.

“A che pensi ?” le domandò a bassa voce Alceo. E avrebbe voluto chiederle : “A chi pensi ?”

“Tiene il piede in due scarpe.”

“Cerchiobottista” fece Alceo.

“Non c’entra.” 

“Vulpicio.”

“E’ ancora troppo lungo…”

“Come sei enigmatica !”

Una lucertola stecchita  sfrigolava sulla pietra rovente.

La sera scese come un manto di seta grigia. Stavano seduti sulla grossa ghiaia pulita vicino alla riva. Era singolare come sulla battigia la grossa ghiaia cedesse d’un tratto il posto a una sabbia finissima. Formava un tappeto sottomarino largo due-tre metri, dolce e carezzevole sotto i piedi come talco. In corrispondenza l’acqua assumeva nelle ore più calde una tinta turchese, che impallidiva nel color acqua marina la mattina e la sera : i pescatori chiamavano quella fascia d’acqua il nastro della Vergine. Subito dopo il fondale sprofondava ; da lì il mare aveva di solito, a perdita d’occhio, una tinta blu carico che sfumava nel blu di Prussia, con qualche occhieggiamento ametista. Quella sera, però, a qualche decina di metri dalla riva, si era formato come uno stagno: uno strato d’acqua assolutamente immobile stava sovrapposto come una lente di ghiaccio all’acqua più colorata sottostante e l’aveva sbiadita in superficie. Come una lente a contatto può far cambiare colore agli occhi, così quella lente di cristallo mutava colore al mare. Alceo, che vi aveva fatto qualche bracciata, aveva sentito la differenza di temperatura : nuotando, la faccia e le braccia avvertivano la freddezza dello strato più superficiale dell’acqua, sottile come una lamina di cristallo, mentre il ventre attingeva lo strato sottostante che per contrasto sembrava surriscaldato.

  Un senso di grande fiacchezza li aveva pervasi. Parlava solo Valerio : domandò di Hard. L’avevano lasciato al canile. Raccontò di come, ad Acquappesa, avesse incrociato con la roulotte una macchina nel punto più stretto, un passaggio tra le rocce denominato Apprezzamilasino perché, quando s’incontravano due asini, dato che gli asini non fanno retromarcia, i due conducenti concordavano il prezzo dell’asino di minor pregio e lo buttavano giù nel burrone. Poco alla volta ogni voce tacque, compresa quella di Lodoletta rannicchiata in braccio alla mamma, e ammutolirono tutti.

Si udiva solo, stanchissimo, lo sciacquio soffocato della risacca, a intervalli che sembravano ogni volta più lunghi. Alceo si sentiva rabbuiato anche dentro ; vedeva Leda in disparte, con quell’espressione indecifrabile di scontentezza, di angelo corrucciato, e se ne crucciava e faceva una colpa senza sapere perché. “E’ lo scirocco” si giustificò. Gigliola si alzò portandosi via Lodoletta.

All’improvviso Leda cacciò un grido : “Guarda, è luminoso !” Un pesce fosforescente, poi un altro, e un altro, saltarono fuori dell’acqua. In quel momento un fascio di luce basso sull’orizzonte, come se avessero acceso un riflettore, isolò dalla massa liquida buia una stretta e lunga striscia di mare. “Dai, acchiappiamoli !” gridò  Leda e, toltosi il vestito, così com’era con le sole mutandine di pizzo, si buttò in mare. Valerio, che aveva i calzoncini da bagno, fu lesto a seguirla. Alceo esitò un attimo ; indossava un paio di bermuda e niente sotto. Poi si decise : se li tolse  e si tuffò nudo in mare. Si mise a nuotare vigorosamente ; voleva evitare che Valerio stesse a ridosso di Leda, magari per proteggerla dal buio, e involontariamente o meno i loro corpi si sfiorassero. “Piano” disse Valerio : il mare si accendeva intorno al corpo di Leda e ne disegnava i contorni in una sagoma fosforescente.

“Nuotiamo nella luna, nuotiamo nella luna !” fece Leda. S’inoltrarono verso il largo cercando di restare nello stretto fascio di luce. Anche lì l’acqua era fosforescente ma la fosforescenza spiccava meno. Ritornarono nell’area buia, sebbene Leda fosse un po’ riluttante : le faceva impressione stare immersa nell’acqua nera. “E’ come con i proiettili traccianti nel cielo nero durante le incursioni aeree” emerse nella memoria a  Alceo. Adesso che nuotavano piano anche il corpo di Valerio era fosforescente. Il suo non lo scorgeva ; ma sollevando le braccia vedeva stillare una cascata di puntini luminosi. Leda volle tornare a riva, disse di sentire freddo ; eppure il mare era caldissimo, più caldo dell’aria. La lenticola d’acqua più fredda s’era disciolta. Alceo, a ogni modo, la seguì da presso. Leda uscì gocciolante : lo slip si era ritratto in mezzo alle natiche ed era, comunque, completamente trasparente. Nel fascio lunare che s’era ormai allargato a  allagare di luce la spiaggia e più oltre, Leda si ergeva, praticamente nuda, come una stupenda Venere notturna.

Alceo raccolse da terra il vestito e glielo porse.

“Sono tutta bagnata.”

“Sei anche nuda” sussurrò Alceo a fior di labbra.

“Piuttosto tu. Copriti che ci scandalizzi Gigliola.”

Alceo tenne sospesi i bermuda davanti al pube, portando con l’altra mano il vestito di Leda, che incedeva davanti a lui e a Valerio, senza ombra di disagio, come una dea.

Quella notte Alceo fece l’amore con lei forsennatamente, col desiderio che risorgeva inestinguibile appena placato, fino a che Leda gli disse : “Basta, che mi sciupi. Poi, domani, mi si vede in faccia.”

Si staccò da lei, ma rimase per ore sveglio nella notte fonda, in un silenzio substellare, con la spada sguainata.

Corrado Calabrò

Il telefonino

Con gli occhi ancora quasi chiusi tastò accanto a sé il letto matrimoniale. Nel dormiveglia aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcuno nel letto, o almeno la sua impronta. Aprì gli occhi, accese la luce, fermò la sveglia: non c’era nessuno, naturalmente.

Già alzarsi alle sei e mezza era una violenza; da qualche tempo, poi, si aggiungeva quel senso di contrarietà, l’impressione di dover sempre remare contro.

Andò nel bagno, si lavò la faccia e fece per darsi una ravviata  ai capelli. Ma dov’era la spazzola? E i pettini?

“Maledetta Lourdes!” stava per esclamare ma si trattenne, accorgendosi che suonava come una bestemmia. Solo lei poteva tenere una donna come Lourdes. Era fidata, certo, ed era una comodità lasciarle le chiavi di casa. Veniva a fare i servizi ad ore quando poteva, o meglio quando voleva. Puliva più a fondo di quanto non facciano di solito le cameriere lasciate sole in casa. Ma dove passava Lourdes era come se fosse passato un tornado. Spostava ogni cosa ; e non si ritrovava un solo oggetto al suo posto. Qualche volta che Fiamma l’aveva incrociata e gliel’aveva detto, Lourdes se l’era presa a male, quasi come se l’avesse accusata di rubare.

In cucina la finestra era aperta ma l’aria ristagnava già  a quell’ora del mattino. Il cortile del condominio era poco più che un pozzo. L’attendeva un’altra giornata pesante. Il profumo del caffè la rinfrancò. Ne bevve una tazzina nero e versò il resto in mezza tazza di latte. Alzò gli occhi, sentendosi guardata. Dalla finestra di fronte, un piano più su, una donna anziana l’osservava con i gomiti sul davanzale. Fiamma si ricordò di essere senza slip. A Giulio piaceva che facesse colazione così – in camiciola e senza mutandine -, anche se lui, la mattina, andava via di corsa più di lei. Ma qualche volta…

“Che ci avrà da guardare quella stronza?”. Quando c’era Giulio non passava giorno senza che se ne stesse appollaiata alla finestra. Poi l’aveva vista sbirciare stando un po’ discosta. Perché la gente ama tanto spiare nella vita degli altri? Che c’è nel quotidiano altrui che ci possa attrarre, incuriosire? Non è tutto così usuale, così risaputo? Che gusto c’è a vedere una coppia prendere il caffellatte, questionare?.

Discutevano spesso, lei e Giulio, ma senza acredine. Finché non era insorta la questione. Era stata intempestiva, impaziente? Dopo sei anni di convivenza… Certo avrebbero anche potuto continuare così. Avrebbero potuto? E per quanto tempo? E se un giorno, all’improvviso? Ma che DICO? Perché, se fossero stati sposati non sarebbe stato lo stesso? Un bel dì, all’improvviso , un fil di fumo… 

 Il fatto è che ci sono momenti in cui abbiamo bisogno di certezze, di qualche punto fermo di riferimento nella nostra vita. Erano quattro mesi che il posto era vacante. E Fiamma ne aveva tenuto la reggenza. Poi, all’improvviso, avevano nominato un altro. Forse non era stato il momento migliore per porre la questione a Giulio. Soprattutto non era stato il modo migliore. Era troppo tesa. In amore non si pongono ultimatum. E in ufficio? Nemmeno, se non si hanno alternative.

A Giulio quella vecchia dava fastidio. Ma per Fiamma era stata una presenza non sgradita, per qualche tempo. A Roma non aveva parenti. Quella donna negli anni, interessata al loro rapporto di coppia, era un po’ come una vecchia zia. E le era sembrato un segno di discrezione che si fosse scostata dalla finestra quando Giulio se n’era andato. Quella mattina però si era rimessa al davanzale. C’era qualcosa di arrogante, di maligno, di soddisfatto nel modo in cui teneva poggiati i gomiti sul davanzale. Che fosse stata lasciata anche lei dal marito o dal compagno?

 E’ incredibile quanta soddisfazione prova la gente quando due si lasciano. Non c’è niente che li gratifichi di più, nemmeno il fatto che lui le faccia le corna. Le sue amiche non parlavano d’altro. Che una coppia abbia un rapporto intenso, anche conflittuale magari, ma con interscambio, con interazione di personalità, non gliene importa niente a nessuno. Veramente c’è un’altra cosa che dà un’enorme soddisfazione alle amiche: che un uomo ti freghi in carriera.

Andò a mettere la tazza sotto l’acqua corrente. Ecco cos’era che svegliandosi aveva cercato, tastando, accanto a sé nel letto: il feticcio del matrimonio!

Era ottobre, ma faceva caldo come in agosto. Ma almeno poteva andare in ufficio in bicicletta. Di solito metteva i pantaloni ma quella mattina indossò una gonna; anche un po’ corta, non cortissima, si capisce. Prese dal cassetto un paio di collant, ma poi li ripose; faceva un tale caldo! Del resto aveva le gambe ancora abbronzate. Le gambe, lunghe, scattanti, perfettamente modellate, erano la cosa più bella di lei, insieme con i lunghi capelli rossi.

Le piaceva pedalare, con la chioma rossa svolazzante. Quella mattina, però, aveva raccolto i capelli; no, non era giornata. Il traffico – come sempre, più di sempre – era impegnativo. Le macchine subiscono i motorini ma si rifanno con le biciclette. I motorini, poi, si fanno la legge a loro uso ed abuso: una prevaricazione continua. Fece un paio di frenate a rotta di collo. Mettendo bruscamente piede a terra, la gonna salì. Dalle macchine guardavano, un motorino fece una giravolta. Pedalando cercava di tenere le ginocchia accostate; ma non era così semplice. Doveva fare un po’ l’equilibrista. No, non era il modo migliore di affrontare una giornata di lavoro.

Tirò dritta passando avanti alla stanza del capo, quella che aveva occupato lei fino a qualche settimana prima. Ma la porta era aperta e il dottor Finocchiaro si alzò a metà sulla sedia e salutò con esagerata cortesia: “Dottoressa!”. “Fanculo” rispose Fiamma mentalmente, facendo tuttavia un cenno col capo. Anche se – ammise – lui non aveva colpa. Solo che era un mediocre, un conformista, un meticoloso; un opportunista – figuriamoci! –, ma più che altro un melenso. Da lui non veniva mai un’espressione fuori posto. Ma neanche un’opinione che non fosse scontata.

Forse Fiamma si era lasciata sfuggire con le amiche qualche parola di troppo nei confronti del direttore generale, che non era neanche lui un fulmine di guerra. E – puoi stare sicura – gliel’avevano riferita, altroché se gliel’avevano riferita! Forse, anche, aveva inciso quella vacanza. Erano ferie dell’anno prima, era suo diritto prenderle, e però quando si ha un posto di responsabilità i diritti, nella prassi, diventano condizionati, anzi subordinati. Ma Giulio aveva solo in quel periodo le due settimane che occorrevano per il Tibet. E il Tibet era diventato per Giulio una fissazione. Era partita senza aver ricevuto risposta scritta alla sua domanda di ferie. Così aveva perduto l’incarico dirigenziale e Giulio.  Come non ci si rende conto dei passaggi chiave della nostra vita! In Tibet la vita era così rallentata, l’aria ti riempiva i polmoni, la vista spaziava così lontano, così dall’alto….

“Fanculo” ripeté. Provò a immergersi nel lavoro ma si sentiva alterata. Non riusciva a mandarla giù. Certo pagare un avvocato… “Posso fare ricorso straordinario” pensò. Si mise a scriverlo. Ebbe l’impressione che non venisse male. Ma doveva farlo vedere a qualcuno del mestiere. Un avvocato, no. Altrimenti tanto sarebbe valso fare ricorso giurisdizionale. A qualcuno che se n’intendesse. “Squinzio!” le venne in mente. Era stato collega di suo zio, il famoso presidente Perassi. Era stato in Sezione con lui. Lo incontrava di tanto in tanto, anche dal giornalaio, perché abitava vicino  casa. Si mostrava pieno di riguardi. Gli telefonò ed ebbe la fortuna di trovarlo.  Gentilmente le fissò un appuntamento per quello stesso pomeriggio, sul tardi.

L’appartamento di S.E. Squinzio era al primo piano ed era piuttosto buio. Lo studio. benché grande, era sommerso di fascicoli, fascicoli e libri, nelle scaffalature, sulla scrivania, su un tavolino basso, sulla consolle, sul divano, sulle sedie, persino per terra. Fiamma si sedette su un angolino di sedia, ingombra di fascicoli, con un quarto del sedere. “Oh, scusi, scusi” fece tutto manierato S.E. Squinzio. “Le carte ci fanno la guerra. E spesso la vincono.” Mentre l’ascoltava  Squinzio diede una scorsa rapidissima alla bozza di ricorso straordinario. “Certo può farlo. Ogni cittadino…Le probabilità? Difficile dirlo. C’è la discrezionalità… L’importante in questo momento è dare sfogo a questo suo stato emotivo. Spesso si fa ricorso anche per liberarsi di un risentimento – per carità sacrosanto –  ma che può diventare un’ossessione. Poi, parecchi interessati il loro ricorso nemmeno lo coltivano. Il suo ricorso? Può andare; nel ricorso straordinario si tira un po’ via, non si pretende più che tanto. Lo chiamano il ricorso dei poveri… Una volta anch’io feci ricorso; sì proprio ricorso straordinario. Non per un interesse pratico, per carità. Per una questione di principio. Tanto che lo feci sotto falso nome; per cui lo vinsi ma non potei giovarmene. Metterci le mani? No, questo no. Sa, la sacralità della funzione… No, non occorre pagare la tassa: si tratta di pubblico impiego.”

Fiamma scese le scale più perplessa di quanto non le avesse salite. Inforcò la bicicletta. Che tartufo! Ce l’aveva con Squinzio non tanto perché aveva declinato di darle una mano, quanto per gli argomenti del cavolo che aveva tirato fuori; e per l’affettazione con cui glieli aveva conditi. Il ricorso dei poveri… E quella storia del suo ricorso straordinario! Come poteva essere? Fare ricorso sotto falso nome?! A quale scopo? E poi non era fare un falso, non era commettere un reato? L’aveva presa per i fondelli. Ma che, credeva che fosse proprio una cretina?

Che stronzo, pensava. “Stronzi!” urlò: due ragazzi in motorino l’avevano stretta e quasi la facevano cadere. “Ah, ah” sghignazzarono, vedendo che s’era scomposta. Che figli di puttana! Non erano nemmeno tanto ragazzi. Continuarono a farle serpentine davanti e di lato, stringendola all’improvviso. Per fortuna casa sua era proprio vicina; l’ultimo tratto lo fece pedalando sul marciapiedi.

Aprì, rimise le chiavi in borsa, introdusse la bicicletta e fece per richiudere il portone. Ma  una spallata lo spalancò. Si ritrovò nell’androne con i due giovinastri. Interpose la bicicletta; uno dei due l’afferrò dal telaio e cominciò a tirare; Fiamma la teneva dal manubrio. Intervenne l’altro tirando e storcendo la bici e con essa i polsi di Fiamma; dovette mollarla.

In due le vennero addosso; uno cercò di afferrarla per un braccio, l’altro le infilò la mano sotto la gonna. Fiamma gli rifilò un ceffone che quello ricambiò. Spostando il busto riuscì a scansarselo; non del tutto, però: il colpo la prese di striscio tra il collo e la nuca. Si mise a correre verso la scala. La rincorsero, le si aggrapparono addosso cercando di trascinarla a terra. Si mise a gridare. Era convinta che si sarebbero aperte immediatamente le porte su tutti i pianerottoli; a quell’ora la gente era in casa. Ma non una porta si aprì.

“Sta zitta” le sibilò il più grosso e le appioppò un pugno in bocca. Questa volta il colpo giunse a segno; non proprio in bocca perché Fiamma aveva girato la testa, ma sulla guancia. L’altro intanto l’aveva afferrata dal collo, e ficcandosi dietro la sua schiena, l’aveva fatta cadere e ora cercava di trattenerla mentre Fiamma si divincolava. Quello grosso  tirò giù la cerniera dei pantaloni, ma poi non procedette oltre. Forse non era in condizioni di esibirsi. La strattonavano in tutte le maniere, cercando di strapparle le mutandine. Ma Fiamma scalciava di brutto. Le serviva aver fatto kick boxing in palestra. Fu quello smilzo a farsi sotto col sesso protruso. Fulmineamente Fiamma gli sferrò un calcio proprio lì. Francamente provò un vero piacere a colpirlo nel sesso; lui per tutti i maschi prevaricatori come lui. Aveva però perduto le scarpe per cui il colpo risultò meno efficace. Bastò comunque perché il teppista si ritrasse torcendosi e bestemmiando.

 Fiamma fece per rialzarsi e per correre su per la scala. “Aiuto” gridò con quanto fiato poté cavare. Un pugno pesante come una mazzata le si abbatté sulla  bocca. Cadde e cadendo batté la nuca contro lo scalino. Sentì in bocca il sapore del sangue. Aveva quasi pensato di farcela ma ora constatava la differenza tra un combattimento ritualizzato in palestra e una colluttazione selvaggia con due teppisti.

Adesso era quello grosso a tenerla mentre l’altro, col membro protervo malgrado il colpo, cercava di divaricarle le gambe. Fiamma, però,  era tutt’altro che doma: mentre quello si chinava su di lei, gli piazzò una ginocchiata nel mento. Un altro pugno le si stampò in faccia. Poi  due, tre, quattro schiaffoni la stordirono. Il grosso la teneva, ma goffamente, tutto preso com’era dal tifo per la foia bestiale del suo compagno.

Fiamma si sentì sopraffatta. Le avevano strappato  e tirato via le mutandine e ora il ragazzotto era riuscito a infilare le  ginocchia tra le sue cosce e gliele teneva aperte tampinandola col sesso sempre più da presso. Quello grosso le teneva le braccia inchiodate per terra.

In quel momento squillò il cellulare. Fiamma non ci fece caso ma il grosso si mise a frugare freneticamente nella tasca di dietro; non riusciva a tirarlo fuori. Il telefonino continuava a squillare. Usando entrambe le mani il bestione lo trasse dalla tasca appena in tempo prima che cadesse la comunicazione.

Fu un attimo. Fiamma guizzò via e balzò su per le scale. Al primo piano suonò e bussò in tutte e tre le porte. Niente. Continuò di corsa per la rampa successiva. “Giulio, Giulio!” gridava, picchiando e suonando alle porte mentre il suo assaltatore l’inseguiva. Ne sentiva l’ansimare alle calcagna. L’altro, quello più grosso, stava parlando al telefono e veniva su lentamente.

Finalmente una porta si aprì al piano di sotto. Lo smilzo esitò, poi si ricompose e prese a discendere le scale, con indifferenza

Con le ginocchia che le tremavano Fiamma fece ancora una rampa. Sentiva la bocca impastata di sangue e un gran male alla nuca; per fortuna i capelli avevano attutito un po’ il colpo. “Mi hanno sfigurata” si disse.

La finestra sul pianerottolo era aperta: comodamente appoggiata sul davanzale con tutti gli avambracci, la spiona stava a osservare. Il suo sguardo ficcante si soffermò sul volto tumefatto di Fiamma. Di chiamare la polizia non le era  passato nemmeno nei paraggi del cervello.

                                                                                     Corrado Calabrò

Nota Redazione:

Testi ricevuti per gentile collaborazione dell’autore a cui sono riservati i diritti per il copyright.

Inserimento dati:

Lidia Popa

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