Dante Maffia

Dante Maffia è nato a Roseto Capo Spulico (CS) nel 1946. Si è laureato in Lettere all’Università di Roma, città nella quale vive da molti anni, con una tesi su La presenza del Verga nella letteratura calabrese.

Come poeta venne segnalato da Aldo Palazzeschi che scrisse la prefazione alla sua prima silloge di poesie, Il leone non mangia l’erba, Remo Croce, Roma, 1974, mentre come narratore venne segnalato da Giampaolo Rugarli. Numerosissime le sillogi poetiche: Le favole impudiche, Prefazione di Donato Valli, Laterza, Bari, 1977, Passeggiate romane, Prefazione di Enzo Mandruzzato e Postfazione di Dario Bellezza, Capone, Cavallino, 1979, L’eredità infranta, Prefazione di Mario Sansone e Postfazione di Carmelo Mezzasalma, Hellas, Firenze, 1981, Caro Baudelaire, Prefazione di Mario Luzi, Lacaita, Manduria, 1983, L’educazione permanente, con un saggio di Giacinto Spagnoletti, Casagrande, Bellinzona, 1992, La castità del male, Prefazione di Giuseppe Pontiggia, Casagrande, Bellinzona, 1993, Lo specchio della mente, Prefazione di Nelo Risi, Crocetti, Milano, 1999, Possibili errori, Prefazioni di Mario Luzi e Dacia Maraini, Introduzione di Silvana Folliero, Fermenti, Roma, 2000, Canzoni d’amore, di passioni e di gelosia, Prefazione di Luigi Reina, Pagine, Roma, 2002, Ultimi versi d’amore, Lepisma, Roma, 2004, Diario Andaluz, Prefazione e Traduzione di Carmelo Vera Saura, ArCiVel Editores, Siviglia, 2005, Abitare la cecità, Prefazione di Sergio Zavoli, Lepisma, Roma, 2011, Poesie torinesi, Prefazione di Giovanni Tesio, Postfazione di Rocco Paternostro, con un saggio di Dario Bellezza e una lettera di Primo Levi, Lepisma, Roma, 2011, Sbarco clandestino, Introduzione di Lina Sergi, Prefazione di Nicola Merola, Tracce, Pescara, 2011., Il poeta e la farfalla, Lepisma, Roma, 2014, Pref. di Giuseppe Lo Castro, postfaz. Di Nunzia Pasturi, Elegie materane, Roma, Lepisma, 2016, Pref. Di Giovanni Caserta, postfaz. Di Maria Antonella D’Agostino, Matera e una donna, Lecce, Terre d’ulivi edizioni, 2017, Pref. di Luigi Reina, postfaz. Di Carmine Chiodo, Mille Haiku per Kioto, Kioto, 2017, traduzione in inglese di Laura Garavaglia, traduzione in giapponese di Mariko Sumikura.

Per la prosa, tra le varie opere Il romanzo di Tommaso Campanella, Prefazione di Norberto Bobbio, Spirali, Milano, 1996; celebre anche il romanzo Mi faccio musulmano, con una lettera di Giuseppe Pontiggia, Lepisma, Roma, 2004. E poi Un lupo mannaro, San Bettino Craxi, La donna che parlava ai libri, Monte sardo, Milano non esiste, Bollori, Gli italiani preferiscono le straniere, Il poeta e lo spazzino.

Per la saggistica si è dedicato a vari ambiti della letteratura, tra cui alle opere del Tasso, quelle di Campanella, di Grazia Deledda, di Quasimodo e alla poesia italiana del nuovo millennio.

Ha collaborato con importanti riviste letterarie tra cui «Il Belli», «Idea», «Poiesis», «Fermenti», «Poesia» e ha fondato le riviste «Il Policordo», «Poetica» e «Polimnia». Ha diretto e dirige varie collane di poesia e narrativa per diverse case editrici tra cui Il policordo e Lepisma.

Sulla sua produzione hanno scritto i più grandi e riconosciuti critici, saggisti, scrittori e poeti tra cui Jorge Amado, Mario Praz, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Gesualdo Bufalino, Josif Aleksandrovič Brodskij, Primo Levi, Natalia Ginzburg, Mario Vargas Llosa, Oreste Macrì, Giorgio Caproni, Giovanni Raboni, Tullio De Mauro, Nelo Risi, Luigi Reina, Claudio Magris, Giacinto Spagnoletti, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Alberto Moravia, Mario Luzi, Dario Bellezza, Giuseppe Pontiggia, Norberto Bobbio e moltissimi altri.

È risultato vincitore in numerosi premi letterari tra i quali l’ “Alfonso Gatto”, il “Calliope”, il “Città di Firenze”, il “Città di Venezia”, il “Circe-Sabaudia”, l’ “Anco Marzio”, lo “Stresa”, il “Tarquinia-Cardarelli”, il “Montale”, il “Camaiore”, il “Rhegium Julii”,…Nel 2004 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la medaglia d’oro come Benemerito della Cultura e nel maggio del 2013 l’Università Pontificia gli ha conferito la Laurea Apollinaris, massimo livello di merito conferito ai poeti italiani contemporanei.

Alla Camera dei Deputati è stato insignito del Premio Giacomo Matteotti. Molte le tesi di Laurea sulla sua attività sia nelle Università italiane e sia in quelle svizzere, francesi, tedesche e americane. È cittadino onorario di alcuni paesi dell’Abruzzo e della Calabria. È candidato al Premio Nobel per la Letteratura da un Comitato nato attorno al suo nome, da alcune Università, dal Consiglio Regionale della Calabria all’unanimità, e da molte Fondazioni.

PER ENTRARE NELLA CONOSCENZA

Rileggendomi m’accorgo

d’essere stato l’amanuense

d’un poeta immortale

e gioisco, perché comunque la Parola

è transitata nella mia carne,

s’è impastata al mio sangue e ai miei occhi.

Lontano da me la vanità,

io testimonio la voce, la grandezza

d’un bambino che mi abita nel cuore.

Si chiama Omero.

Mi ha confessato

che ogni secolo sceglie una persona

per reincarnarsi,

per tenere desta la Poesia;

insiste sulla P maiuscola.

“Ho abitato Lucrezio, Ovidio, Catullo,

l’Alighieri, Petrarca, Tasso, Shakespeare,

Foscolo, Goethe, Baudelaire,

Eminescu, Lorca, Borges,

per fare qualche nome.

Gli altri non hanno capito che la Poesia

è un’unica fonte che nasce

dal cuore di Dio e s’ingorga nel vento.

La canea mastica sillabe morte,

scorie insipide

per abbeverare il vuoto.

E s’illude.

Non vuole intendere che è dal seme antico

che continuerà a nascere la Musica

per entrare nel divenire della conoscenza”.

ADESSO LA MIA PAROLA

Adesso la mia Parola,

dopo la semina dei tuoi baci,

si è allargata, irrobustita,

ha perduto le ridondanze

e le trepidazioni false,

o raccolte per abitudine,

e si è messa davanti al camino

a godersi il calore della legna

che scoppietta.

Ecco perché è una freccia acuminata

e forse finalmente potrà dirti

che la mia carne e il mio sangue

vivono in ogni sillaba

ingelosendo ancora di più

il coro degli angeli,

Dio

e anche Sua madre

IL CUORE DI CRISTALLO

Il sogno m’ha dato la certezza!

Stanotte insieme sotto la Tour Eiffel

a parlare di Modigliani;

un pazzo sbandato spara a più riprese

e ti colpisce al cuore.

L’ambulanza corre lacerando il buio,

io piango,

non so trattenermi, piango.

All’ospedale mi dicono

di non fare mai più simili scherzi,

di non frequentare donne

col cuore di cristallo,

di non rivedere vecchi film.

L’ERRORE DI MILONE

Quel vento acido che fa crescere

zanzare e tamerici all’incrocio

del Coscile e del Crati,

nella piana di Sibari arsa dal sole,

non è vile inerzia,

abbandono, imputridite favole,

ma sospiri del Dio

che vide i Templi cadere

e non poté porre rimedio,

perché ebbro e disteso in riva al mare

alla sua ancella raccontava sogni

d’un futuro di luce.

Non è la morte che suona nelle acque,

un canto scorre limpido nei virgulti,

un canto nuovo

che muterà la tua la mia sostanza,

sconfiggerà le ombre,

e i muti pini

lieti affideranno ai venti

l’errore di Milone.

IN RISPOSTA A ROTAIE DI MARINA CVETAEVA

Non mi è stato facile pensarti

(i brividi erano diventati

grumi inestricabili,

dolore e assenza,

promessa d’un silenzio

che sapeva troppo di mare)

sulle lenzuola del mio letto.

Era tanto il desiderio

e così denso il timore

che fosse tutto un gioco

di qualche strega perversa

(la maciara, no?

che sa mischiare le carte

a suo piacimento,

che tra le mani mi sfumava il sogno

ed entravano in me dirupi,

schegge del Diluvio

non ancora sopito,

detriti dell’infanzia.

No, Marina, no,

è triste se è lo sconforto

a preparare le lenzuola,

e ancor tristezza più nera

se Saffo singhiozza

come l’ultima sartina.

Lei vuole il mio odore,  

la ferita  del mio cuore,

le parole del mio sangue,

non la macchia illusoria,

libera scelta,

anche a nome tuo,

perché Amore ritrovasse

la contentezza dell’antico onore,

la pienezza

e la compiutezza,

l’infinito abbaglio

per rinnovare le fondamenta

delle nostre pulsioni.

L’ADDIO

Muore anche il mare,

come potevi illuderti

che non sarebbe morto il nostro amore?

Ciò che nasce muore sempre,

non ha via di scampo;

il Tempo è un secondino scrupoloso

che non s’è mai distratto.

Io mi sono preparato all’evento,

ho tolto le rose dai vasi del balcone

e ho piantato crisantemi.

Chi m’ha chiesto il motivo

ho risposto:

“E’ un’usanza giapponese,

simbolo di vita e di felicità”.

Non sono allegro.

Potrei?

Ormai ti sentivo un peso estraneo,

una carezza fastidiosa.

Non eri più la mia coccinella,

l’essenza del sole quando apre

le sue braccia e rifonde

anima e corpo,

ma una stella fredda,

opaca,

senza profumo di vita.

Non piangere,

abbiamo goduto il Paradiso

nei suoi fasti più pazzi,

ingelosita Venere, lo so.

Ma adesso

non riesco più a baciarti.

LA MORTE

Da quando lo psichiatra gli ha detto che bisogna esorcizzare le cose opponendosi con l’anima e con il sentimento, con la propria energia e con tutte le forze interiori, lui la mattina, mentre beve la sua tazza di latte con il caffè, comincia la litania. Debora, la moglie, fugge nella camera da letto e non esce finché lui non finisce di borbottare:

“Morte felice,

morte sacrosanta,

morte farabutta,

morte mai santa.

Morte che cammina,

morte sempre allegra,

morte della brina,

morte ingiusta e casta,

morte che sovrasta,

morte della luce,

morte che conduce

nell’infinito pesto,

morte che non dà resto,

morte della poesia,

morte infingarda,

morte che non guarda

in faccia a nessuno,

morte che frega pure

chi prega e chi è geloso,

morte, dovunque morte,

che mai avrà riposo.

La filastrocca cambia ogni mattina. A lui vengono facili le rime e poi la morte è ovunque e quindi non si sbaglia a ribadire la sua presenza che non rispetta niente e che diventa prepotente. L’unica maniera di tenerla a bada è il suo rituale, ormai ne è convinto e così sciorina quel piccolo pandemonio che a Debora fa saltare i nervi, ma ormai che deve fare? Ammazzarlo e fargli vedere davvero com’è la morte oppure sopportare sottraendosi a quel teatro grottesco serrandosi nella camera da letto? Viene spontaneo a Debora pensare a com’è sprecato quel bel letto con materasso soffice fatto fare da un artigiano, a quei cuscini che sarebbero dovuti servire ai giochi dell’amore… Ogni tanto glielo ricorda e lui, serafico: “Amore e morte son la stessa cosa”.

La stessa cosa un cavolo. La morte è silenzio, lei invece sente gridare dentro spesso le sue viscere, ribellarsi, chiedere soccorso. Non ce la fa più, del resto gli uomini, come il suo principino di belle maniere, meritano le corna, e corna siano.

L’altra mattina è arrivata una telefonata di Marco proprio mentre Biagio stava sciogliendo una delle sue filastrocche apotropaiche:

“Sai, Biagio, è morto Enrico. All’improvviso, domani ci saranno i funerali a Santa Maria del Fiore alle dieci di mattina”.

La ballatella apotropaica è rimasta a metà. Biagio è stato folgorato dalla notizia che gli si è appiccicata addosso come una seconda pelle e non lo lascia in pace.

“Dunque si muore anche senza preavviso, così, mentre si mangia o si parla, mentre si cammina o si scrive”.

“Fai delle scoperte”, risponde Debora, che oscurano immediatamente la grandezza di Einstein.

“Tu zitta, tu porti iella, lo sai. Perciò non intervenire in quel che dico”.

“Guarda che sei stato tu a interpellarmi”.

“E adesso però devi stare zitta”.

“Di che cosa hai paura?”.

“Io?”.

“Sì, tu, di che cosa hai paura? Che la morte sia una malattia infettiva e che avendo frequentato Enrico presto toccherà a te?”.

“Ma che vai dicendo. La morte è necessaria, devi saperlo. Ci ho pensato in queste ultime ore, molto necessaria. Pensa se non ci fosse. Nascite, nascite, nascite e la gente che si sparge per la terra, si assiepa ovunque e toglie spazio. Lo sai che se i poeti non morissero sarebbe una piaga infinita? Non ci sarebbe spazio per quelli come me? Perché prima o poi mi devono dare lo spazio che merito, no? Cominciamo a contare… Enrico, poi Giovanni, poi Maria, poi Monica, poi Luigi, poi Paolo, poi Umberto, poi Giorgio, poi Laura, poi…”.

“Brutto scemo, vai a lavarti e vestiti, che fra un’ora ci saranno i funerali”.

“Mi metto elegante, che dici? In fondo oggi avrò un po’ di spazio in più, quello lasciato da Enrico…”.

Morte bella e santa,

morte che sa di mortadella,

morte sfiziosa e bella,

morte della banda,

morte degli altri, certo,

morte del concerto,

morte degli scrittori,

morte…

“Smettila per una volta. O la tua morte sarà l’immagine di un conto da pagare a un ristorante di lusso. Tirchio come sei ti sembrerà di cadere nella cloaca massima dove l’odore più carino sarà di feci ammuffite di tubercolotici e di sifilitici”.

IL POETA

Il poeta ha tutte le nature, animale, vegetale, umana, divina e fantastica unite insieme per il trionfo dell’armonia. Non domandatevi di quale armonia si tratta: è l’accordo del proprio essere con l’essere universale, la magia del sorriso che si scambiano il singolo e l’universo. Il poeta esiste nella sua totalità, nel suo fulgore e nella sua sapienza infinita soltanto quando esce di scena e riesce a diventare forma di un sogno che fa lievitare tutti gli altri sogni, segno indefinibile di una verità sconfinata e senza luogo.

Il poeta è servo e imperatore a un tempo, virgulto e compiutezza, dissonanza e fragore che cerca anelando una radura per meglio guardare in faccia la verità. Ma anche in questo caso non si sa bene di quale verità si tratti. Egli è errabondo e radicato nel suo territorio, è riconoscibile immediatamente ed è estraneo, così lontano da diventare vento e sole, ruggine e profumo, aquila e passerotto senza cambiare mai pelle.

Il poeta è dio e la negazione di dio; patria e disconoscimento della patria, tentazione e prevaricazione, proiezione nel futuro lontano, così lontano da dare l’impressione che emozioni e suggerimenti siano appena un gioco della fantasia. Egli è il supremo cantore della realtà e proprio nel mentre la canta la ricompone e la rifà diversa, imprendibile, come un’orma che si cancella subito dopo per diventare processo del divenire, possibilità dell’infinito.  Ecco perché è talmente semplice e innocente da apparire subito enigmatico e incandescente, farfalla e drago. Egli è l’incanto che un attimo prima non esisteva, o aleggiava irrisolto, e un attimo dopo è già trascorso oltre il limite del visibile, del vivibile. Se così non fosse egli sarebbe l’interprete banale di messaggi quotidiani e non il messaggero del limpido guizzo di ciò che si deve compiere al di là di qualsiasi misura o regola prestabilita.

A volte il poeta è residuo di millenni (per questo sembra carico di presagi), strascico irrisolto di lampi che non hanno trovato la strada per esistere ed esplodere. Anche in questi casi egli è faro di una connessione che tenta il saldo tra stupore e alienazione, tanto forte è la tensione per giungere a comprendere i nessi del cielo con la terra.

Il poeta è sempre straniero della sua anima, del suo ambiente, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni; (straniero che fa scoperte strabilianti dove sembrerebbe che non ci sia nulla di eccezionale). Se non fosse così navigherebbe nelle acque banali del risaputo, dell’ovvietà, e non farebbe intravedere le oscure e lontane strade della luce impastate di pesi solenni dai quali bisogna guardarsi, ma necessari per entrare nella geometria delle ipotesi e delle sintesi dell’incanto, nella realizzazione della gioia e del dolore. E l’incanto, si sa, permette di godere con consapevolezza tutta la meraviglia nascosta nei luoghi, nelle cose, nei gesti e nelle parole delle persone, se se ne ha consapevolezza fuori dai clamori quotidiani.

Il poeta è leone e coniglio, pantano e cielo stellato, preghiera e bestemmia, vita e morte, attesa e compiutezza, deflagrazione del significato e ricomposizione dei frammenti. E’ frammento che geme di stare separato, perdita continua, ansante dilazione dei principi della forma dell’acqua, totalità di un assoluto che però vive accanto a ognuno, anche se è difficile percepirlo. Quando egli è dilatazione del senso, e invade tutte le fibre dell’anima accendendo fuochi irrazionali, diventa pericoloso, perché dà l’illusione –soprattutto ai falsi poeti e ai lettori sprovveduti- di essere entrati nella grazia della parola per esprimere perfino le sfumature delle emozioni e delle scoperte che sembrano essersi apparecchiate davanti chissà per quale miracolo. Il poeta è misura del canto, non ripetizione di fenomeni emozionali, è minatore che esercita la sua funzione per offrire al mondo un acconto di eternità. Quasi tutti però dimenticano che l’eternità vive nelle cose semplici e che le cose semplici non hanno bisogno di orpelli o di involucri per splendere legittimamente.

Il poeta vorrebbe che non si facesse confusione tra luoghi comuni e città interiori: i primi navigano in una superficie che stanca dopo pochissimo; le seconde sono possibilità infinite di forme che pretendono d’essere popolate dai discendenti della Città del Sole. Il poeta sa che una mediocre, banale poesia la può scrivere ogni volta che vuole, perché possiede la tecnica (come quella di un qualsiasi vasaio che ripete la sua operazione di lavoro) che gli permette di organizzare un manufatto secondo le regole, ma sa anche che la Poesia, quella vera, quella grande, quella che cambia la sostanza del mondo, arriva come un lampo che scioglie i grumi della terra e ne fa giardini fioriti e profumati, proficui per l’anima e, a lungo termine, addirittura per la politica, per la convivenza civile. La grande poesia, quella che afferma i principi del non essere essendo e dell’essere non essendo, nasce da corti circuiti impossibile da decifrare; è la summa di percorsi lunghi, di millenarie occasioni che si scambiano il fiato, le energie, che si scontrano e progettano di fare rivelazioni. Il guaio è  che raramente le rivelazioni della poesia sono avvistate e che ancora più raramente sono comprese, altrimenti, nonostante la punizione divina e il diniego di Dio, ancora potremmo godere del Paradiso Terrestre. Perciò, non esistono regole per scrivere una poesia (una poesia vera, grande…), e neanche dinanzi al testo poi si possono ricavare, altrimenti avremmo una lunga fila di figli di Omero, di Lucrezio, di Orazio, di Tasso, di Dante, di Shakespeare e di Goethe.

Dunque, il poeta chi è?

Colui che fa rigenerare la vita dalla morte, ha scritto qualcuno. Io dico invece che si tratta di un angelo-demone che Dio ha lasciato libero quando ci fu la ribellione contro di Lui. Ma questa è retorica romantica che butto nella mischia per far discutere un po’, convinto che tutto quel che ho detto prima sia rimasto incomprensibile soprattutto ai mestieranti della letteratura (non parliamo dei politici), ai giornalisti che si piccano di scrivere versi e non hanno neppure il pudore di confessarsi almeno una volta al giorno.

MADDALENA

Povera mamma mia! Non ha retto e alla fine si è buttata dal balcone. La sera spesso si giustificava con me, velatamente cercava di addossare la colpa a mio padre che  tornava ubriaco dall’osteria. Troppo alcol nel sangue può portare guai se metti incinta una donna.

Io l’ascoltavo senza reagire, senza dire niente. Le cose stavano così e non c’era possibilità di rivoltarle in nessun modo, il mio braccio destro è più corto del sinistro, le dita sono sei anziché cinque e ho un occhio verde e un altro nero.

Un mostro, dicono i compagni a scuola, stava per nascere una capra e poi il Signore s’è distratto e sono nata io.

All’inizio non capivo, mica i pini si sentivano inferiori alle querce o la lattuga inferiore al cavolo. La natura è varia. Nel vicinato c’è chi sostiene, parlando al mercato, che i suoi gerani sono i più belli del mondo, grandi, di tanti colori, ma sappiamo tutti che è una fanatica, che ciò che lei fa è il meglio del meglio, anche la pasta di casa. Ognuno ha le sue qualità e i suoi difetti.

Concetta ogni tanto la sfotte chiedendole se oltre alla farina, all’acqua e al sale ci mette anche delle briciole di oro fino per fare le lasagne, e lei si arrabbia e risponde male.

Mia madre si era chiusa, pensava a quello che secondo lei aveva combinato nei miei riguardi e non partecipava alle chiacchiere. Io però non mi preoccupavo, ero la più brava in tutte le materie e sapevo usare il computer meglio degli altri.

Quando venivo chiamata alla lavagna per gli esercizi di matematica era sempre un dramma, ma toccava anche a me essere interrogata e non sapevo come fare per non mostrare il sesto dito della mano. Soffrivo, sudavo, mi sentivo esposta alla derisione e il singhiozzo era sempre in agguato. Per fortuna in classe i compagni non si permettevano sberleffi e nomignoli e così andavo avanti superando la vergogna.

Per strada era un’altra faccenda, non mi risparmiavano. Chi non conosce come si vive nei paesi non sa di quanta cattiveria siano capaci i ragazzi, così, per divertirsi. Ne dicono e ne combinano di ogni colore. Io ero il loro bersaglio preferito, la condannata da Dio. Dio fa nascere con i difetti le pecorelle che hanno peccati gravi da scontare, se non i loro quelli degli antenati.

Mi ero abituata a sopportare, a non rispondere alle ingiurie, agli sberleffi. Soltanto una volta fu più forte di me e reagii contro Josif che è più nero d’un carbone, e contro Elizabeth, che è piccola e magra che più cinese non si può.

“Noi siamo come le nostre madri e i nostri padri”, fu la loro risposta, “tu invece non sei come loro”.

“Sono come mi ha fatto Dio, e Dio non sbaglia mai”.

A casa piansi, ma il mio carattere ebbe presto il sopravvento e mi misi a fare i compiti e non ci pensai più.

Una volta, in palestra, battei tutti i compagni sia alla corsa, sia al salto in alto e sia a tennis. Fu uno scandalo, perché una delle compagne si lamentò dicendo che per forza, io avevo sei dita ed era ingiusto giocare contro che ne aveva solo cinque.

Al confessore domandai con foga:

“Avere un dito in più è una punizione o un regalo di Dio?”.

Il povero vecchio rimase per un bel po’ in silenzio, poi mi disse che domande simili sono blasfeme, che comunque Dio non sbaglia mai e se avevo un dito in più non era un difetto, come non era un difetto se una pianta allungava un ramo in più dell’altra.

Quella volta che uscii con Renzo fu un dramma. Gli piacevo, lo sapevano tutti, smaniava per me e alla fine, nonostante le chiacchiere sul mio conto (si disse perfino che ero una fattucchiera, una maga, un’ancella di Satana) mi invitò a mangiare la pizza. Poi in macchina, appartati, cominciò le manovre e le sue mani frugarono ovunque creando in me scintille a catena. Ma ero ancora vergine e alla fine lo accontentai con la mano. Ebbe un attimo di pausa, lo sentii quasi recalcitrare, ma ormai mi ero fatta furba, avevo capito che bisogna volgere al bene qualsiasi cosa ci capiti e dissi, quasi sussurrando:

“Con sei dita avrai maggiore piacere, è come al pianoforte, un tasto in più sveglia armonie nascoste”.

La frase lo ringalluzzì.

Comunque nessuno ha mai saputo stabilire se quel mio dito in più alla mano sia una benedizione, un ingombro, una blasfemia della natura, un errore, o che diavolo altro. A me non ha dato mai scomodità, pena sì per colpa delle chiacchiere quando ero bambina. Ho sposato Mario Renzo perciò, durante una ubriacatura a Carnevale, ha detto a  tutti la frase che gli avevo riferita. Molti invidiano Mario. Me lo dice. E il mio amore per lui è sterminato.

Nota Redazione:

Testi ricevuti per gentile collaborazione dell’autore a cui sono riservati i diritti per il copyright.

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Lidia Popa

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